Opinioni

La sentenza di appello sulla «trattativa». Non per fango ma per giustizia

Mario Chiavario sabato 25 settembre 2021

«Bisogna aspettare le motivazioni». È una frase usuale, che vale anche stavolta, di fronte alla sentenza di appello per quello che si è venuti a chiamare "il processo sulla trattativa Stato-mafia".

Un dato è certamente fuori discussione: ne appare ribaltata la sentenza di primo grado, che aveva inflitto pesanti condanne a un senatore della Repubblica e a tre alti ufficiali, per aver concorso, mediante contatti con appartenenti alle cosche, alla messa in opera del delitto di minacce a varie compagini governative. Ieri, in loro riforma, sono risuonate altrettante assoluzioni.Un ribaltamento del genere non è un unicum nel nostro sistema, e può essere persino portato ad esempio di una giustizia scrupolosa. Restano degli interrogativi, che il dispositivo della sentenza non può, da solo, sciogliere per intero.

Certamente scagionato in uno dei modi giuridicamente più pieni – «per non aver commesso il fatto» – è il senatore Dell’Utri, anche se solo la motivazione potrà dirci a che cosa si deve l’esito: se, cioè, alla raggiunta prova positiva della totale inconsistenza dell’accusa mossagli, oppure alla constatazione di una mancanza o di un’insufficienza o contraddittorietà delle prove addotte a suo carico. Il risultato, per dei giudici penali, non può non esser identico in ciascuno di tali casi. Lo impone un principio di elementare civiltà: non è l’accusato a dover dimostrare irrefutabilmente la sua innocenza, ma tocca all’accusa provare, «oltre ogni ragionevole dubbio», la colpevolezza.

Più complessa la situazione per ciò che concerne gli altri tre imputati assolti. Al riguardo il verdetto è «perché il fatto non costituisce reato» e l’illazione più immediatamente diffusasi è che nei loro confronti la partecipazione alla trattativa sia stata accertata, e che pertanto l’esclusione della punibilità sia dovuta a motivi in qualche modo esterni al compimento del fatto. L’illazione non è del tutto ingiustificata, alla luce della giurisprudenza di Cassazione, che pur potrà sorprendere i non addetti ai lavori: è la formula assolutoria «perché il fatto non sussiste» (e non quella usata per l’occasione) a venire invero prescritta quando il comportamento cui si riferisce l’imputazione si è pur realizzato, ma senza combaciare perfettamente con la descrizione che del reato in questione dà la legge penale.

Il punto da chiarire sarà, però, se davvero di autentica «trattativa» si sia trattato o se i contatti realizzatisi abbiano avuto, da parte degli interlocutori dei mafiosi, una ben differente impostazione, così da veder sovrapposte, allo scopo delle minacce alle istituzioni, tutt’altre finalità.

Anzitutto, quella di bloccare una preoccupante catena di sangue, soltanto fingendo di concedere qualcosa, o facendo apparire come concessioni degli atti che altrimenti si sarebbero pur sempre potuti giustificare (tale, l’allentamento, per dei semplici gregari, del regime «di massima sicurezza» dell’art. 41-bis). In questa prospettiva, si potrebbe addirittura pensare a uno 'stato di necessità', cui però il codice penale attribuisce, sì, l’effetto che si definisce 'scriminante', ma soltanto entro margini ridottissimi. Viene allora in mente – ed è stato subito evocata – la possibilità che per questi soggetti la consapevolezza di ciò che stavano compiendo potesse ben combinarsi con la totale assenza della volontà d’impedire il funzionamento corretto delle istituzioni (tecnicamente, si chiama mancanza di 'dolo specifico'). E che proprio lì stia la ragione dell’assoluzione.

Sono tutte illazioni, a confermare o smentire le quali occorrerà attendere soltanto il tempo per il deposito della sentenza (non dovrebbero essere più di 90 giorni). Non ne risultano esauriti i motivi di riflessione che la vicenda, nonostante la sentenza, è destinata ad alimentare, e verosimilmente assai più a lungo (vi sia o no il ricorso per cassazione della Procura generale). Da un lato, non può non venirne accentuata la sensazione che comunque la lotta alla mafia induca spesso, a ragione o a torto, dei comportamenti borderline di delicatissima gestione: quelli intervenuti in questo caso (quale che ne sia la valutazione) non sono né i primi né gli ultimi, tra quelli in uso, e legalmente, a opera degli apparati di polizia, anche in relazione ad altri tipi di reato (si pensi anche solo all’impiego dei confidenti, sempre col rischio che si trasformino essi stessi in 'agenti provocatori' di delitti).

Meno ancora, si può dimenticare il peso che vicende come questa hanno accollato, non soltanto a imputati, ma anche ad altre persone, del tutto specchiate e lambite da ingiusti sospetti. Vengono in mente almeno due nomi, quelli di Giovanni Conso e di Loris D’Ambrosio. E d’altro canto, è pur vero che, senza entrare nella logica dell’à la guerre comme à la guerre, uno Stato, e in particolare uno Stato di diritto e democratico, non può mostrarsi debole, soprattutto nei confronti della criminalità più pericolosa.

Ciò che si vorrebbe veder finalmente cessare è la speculazione sulle sentenze e in genere sull’operato della magistratura, da parte delle opposte fazioni politiche (ma anche di giornali 'schierati'), esaltando o vituperando condanne o assoluzioni, anche amplificando o nascondendone i reali contenuti, e prima ancora indagini e rinvii a giudizio, per rivendicare meriti dei proprii aderenti o simpatizzanti e per gettare fango sugli avversari.