Opinioni

Via dai vecchi schemi per tornare a crescere. Cambiare quelle lenti sfocate

Carla Collicelli venerdì 7 settembre 2012
Si scrutano con enorme attenzione le (vere o presunte) strategie di partiti e movimenti in questa complessa fine di legislatura, ma bisognerebbe darne assai di più alle linee strategiche della auspicata ripresa della crescita del Paese. Che la crescita, e con essa lo sviluppo, inteso come processo di miglioramento anche qualitativo, sociale ed umano (e non solo quantitativo ed economico), non abbiano funzionato negli ultimi 20 anni è, infatti, evidente: non è cresciuto il Pil, ma non sono cresciuti nemmeno il benessere delle comunità, il livello culturale della popolazione e la qualità della vita. Ciò che sconcerta è che un simile bilancio fallimentare, ormai chiaro anche agli occhi dei più benevoli osservatori, nonché la fatica che il governo tecnico e il Paese tutto stanno facendo per rimettere a posto alcune delle principali componenti dell’equilibrio economico, non inducano i nostri politici ad affrontare il tema senza rimanere prigionieri di schemi, contrapposizioni e limitazioni vecchie di almeno due decenni.Gli anni 90 hanno rappresentato, come spesso viene ricordato, uno spartiacque cruciale in Italia, ma non solo e non tanto per la lotta alla criminalità organizzata e gli effetti di Tangentopoli sull’assetto partitico del Paese, quanto e soprattutto per le trasformazioni sociali, culturali e economiche intervenute, sia quelle di valenza planetaria sia quelle di tipo socio-antropologico. Per le prime: la fine delle ideologie di massa; la globalizzazione dell’informazione, del lavoro e delle merci; l’ingresso della tecnologia nella vita di tutti – da Internet alla telefonia cellulare –; la fine della ricostruzione post-bellica, l’inclusione progressiva di strati sociali sempre più ampi nell’area del benessere e, al tempo stesso, la polarizzazione sociale tra ricchi e poveri. Per le seconde: il prolungamento della durata della vita e la tensione crescente verso un benessere illimitato e infinito; l’individualizzazione dei vissuti e l’indebolimento delle relazioni sociali; il mito della autodeterminazione; il primato delle emozioni; il dilagare dell’immagine e della spettacolarizzazione. Molto è stato detto e scritto su questi temi dal punto di vista della sociologia, della psicologia, della antropologia. Ma poco ci si è interrogati sulla necessaria trasformazione della politica che ne consegue, o dovrebbe conseguirne.A venti anni di distanza ci ritroviamo così di fronte a un mancato adeguamento dei meccanismi democratici della rappresentanza e del governo, e alla urgenza di una loro rivitalizzazione a causa della mancanza di un dialogo diretto e costruttivo tra rappresentati e rappresentanti. Conflittualità, fratture interne, debolezza amministrativa e istituzionale, irresponsabilità e scelte dettate dal vantaggio individuale e di parte sono all’ordine del giorno in termini di critiche al nostro sistema politico. Ma persino più grave è che, da circa due decenni, non riescano a essere sciolti i nodi di una contrapposizione ormai datata tra liberismo e statalismo, tra fautori di uno sviluppo centrato sull’intervento statale e partigiani di uno sviluppo basato sulle liberalizzazioni, tra chi vede ancora lo Stato gerarchicamente sovraordinato anche in economia, in una relazione di tipo protettivo e invasivo, e chi invece vorrebbe affidare tutto al mercato. È necessario che si operi finalmente nella direzione di una "nuova socialità", basata sulla cooperazione reciproca, sull’autonomia e sulla sussidiarietà. Servono, insomma, innovative strategie di collaborazione poliarchica, di valorizzazione delle forme di aggregazione e di intreccio tra responsabilità individuale, comunitaria e collettiva. Le esigenze della collettività devono sposarsi con quelle degli individui e dei gruppi sociali ristretti. Soprattutto va recuperata, rispettata e incentivata la dimensione creativa, liberata dai freddi e paralizzanti schematismi ideologici e, così, volta al bene del futuro.