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Ambiente. "Diamoci una regolata", pressing sulla direttiva Ue solo per i grandi

Giovanna Sciacchitano mercoledì 1 giugno 2022

Un passo importante verso la realizzazione della piena sostenibilità è rappresentato dalla proposta di direttiva presentata il 23 febbraio sulla dovuta diligenza per le imprese in materia di diritti umani e ambiente. Lo scopo di questo testo, atteso da tempo, è imporre alle imprese obblighi di verifica e prevenzione degli impatti derivanti dalle loro attività su lavoratori, consumatori, comunità ed ecosistemi. Da questo punto di partenza è nata la campagna 'Impresa2030, Diamoci una regolata', per una direttiva europea che prevenga qualsiasi abuso collegato direttamente alle proprie attività economiche o a quelle dei propri fornitori. L’iniziativa è promossa da un network di organizzazioni già impegnate nella difesa dei diritti umani nella propria azione quotidiana, che sono ActionAid Italia, Equo Garantito, Fair, Focsiv, Fondazione Finanza Etica, Human Rights International Corner (Hric), Mani Tese Oxfam Italia, Save the Children e WeWorld. La proposta ha di fronte il consueto iter legislativo prima della definitiva adozione. Delle criticità e di quanto si debba fare perché si raggiunga una svolta significativa si è discusso il 10 maggio scorso nel corso del convegno milanese 'Ambiente e diritti umani', un confronto tra stakeholder per il business di domani, organizzato dall’Università degli studi di Milano. Un primo punto problematico è stato evidenziato durante la tavola rotonda dall’europarlamentare Brando Benifei (Pd e riguarda il ruolo degli stakeholder (portatori di interesse). «Il suggerimento del Parlamento europeo era più ambizioso – ha osservato –. Il ruolo degli stakeholder è limitato a quello di denuncia, che non è ciò che noi volevamo. Chiedevamo, infatti, un coinvolgimento maggiore, affinché le persone sul campo venissero ascoltate. Inoltre, ci preoccupa la possibilità prevista per le aziende di concludere clausole contrattuali con i loro fornitori sulla due diligence, in modo da spostare questa responsabilità più in basso nella catena della produzione».

Ma l’aspetto più critico, rilevato da docenti ed esperti è il campo di applicazione, che riguarda aziende con più di 250 dipendenti e un fatturato superiore a 40 milioni di euro. C’è poi il tema del rimedio e cioè la possibilità alle vittime di poter agire. Esistono tanti fattori che negano alle vittime di avere un equo processo, come il costo elevato delle spese legali, i termini di denuncia troppo brevi, un onere della prova sproporzionato rispetto alla forza delle controparti. Giosuè De Salvo, portavoce della campagna Impresa2030, ha sottolineato come si tratti di una direttiva tecnica molto complessa. «La campagna vuole semplificare la disciplina per renderla più efficace possibile – ha spiegato –. Il rischio è quello di compilare una check list e limitarsi a una compliance che svaluterebbe la portata della direttiva. Un altro punto delicato è quello dell’accesso alla giustizia, che è stato dimenticato. L’onere della prova, infatti, dovrebbe essere a carico delle imprese».

Va detto che questo è solo l’inizio di un percorso. «Per il momento il campo di applicazione riguarda meno dell’1% delle imprese europee – ha rimarcato De Salvo –. Secondo noi tutte le imprese devono essere coinvolte, con una scala di gradazione. C’è anche la questione dell’impatto della direttiva. La Commissione vuole che le imprese adottino un piano di transizione climatica in linea con l’obiettivo di 1,5 gradi dell’accordo di Parigi sul clima. Tuttavia, la proposta non prevede conseguenze specifiche per la violazione di questo dovere climatico, il che rischia di renderlo inefficace». C’è anche da considerare l’aspetto del diritto di rappresentanza dei sindacati e il sostegno delle spese per i ricorrenti da parte dello Stato. In ogni caso su questa tematica non partiamo da zero, come ha osservato Marco Girardo, caporedattore economia di Avvenire, che ha moderato il dibattito. Giulia Genuardi (Enel), intervenuta da remoto, ha spiegato: «Siamo partiti sul tema dei diritti umani più di dieci anni fa e abbiamo avviato un processo di transizione per non lasciare indietro nessuno. Stiamo passando, infatti, da un modello di business per la produzione termoelettrica a uno per quella rinnovabile. Sono a favore dei reporting sugli obiettivi di sviluppo sostenibile perché le aziende devono essere trasparenti a 360 gradi. Ecco perché è fondamentale che sui diritti umani si agisca in un’ottica di sistema». Silvia Borelli, segretario Europa Cgil, riferendosi a uno studio condotto con la Confederazione sindacale internazionale, ha rilevato che l’esternalizzazione dei contratti è ormai diventato un modello di business.

«Per contenere il costo del lavoro si praticano forme di sfruttamento legale e illegale della manodopera – ha detto –. Si ricorre al meccanismo di separazione dei profitti e del potere da un lato e dei rischi e della responsabilità dall’altro, cioè si frammenta il ciclo produttivo fra più soggetti giuridici. Questo consente di mantenere il potere su tutta la catena del valore, scaricando a valle i rischi e le responsabilità». Ancora, è stata rilevata un’altissima volatilità delle imprese all’interno della catena del valore. «Le imprese vengono cambiate ad hoc ogni volta che succede qualcosa di negativo – ha spiegato –. Per evitare ogni forma di responsabilità l’impresa a capo della catena del valore non fa altro che cambiare il proprio partner. Secondo l’esperta la direttiva così com’è non cambierebbe nulla: «Bisogna evitare di trasformare la tutela dei diritti umani in diritto dell’impresa». Raul Caruso, economista e direttore di Assobenefit (Associazione nazionale delle Società Benefit), suggerisce provocatoriamente di applicare la motivazione delle aziende benefit anche alle altre imprese e rimarca che «il 95% delle imprese europee sono pmi. Purtroppo questa direttiva non si pone il problema di normare anche le piccole». Insomma, il percorso verso una direttiva adeguata per contribuire al rispetto dei diritti umani e dell’ambiente nel mondo è ancora lunga.