Economia

Inchiesta 1. Il giornalismo non fa più notizia

Pietro Saccò martedì 16 giugno 2015
Quando la notizia di un giornale che licenzia (o, peggio, che chiude) si inserisce nell’agenda dei "fatti del giorno", nelle riunioni di redazione per qualche minuto il dibattito si fa più mesto e nell’aria si respira una certa costernazione. Non è normale solidarietà tra colleghi. È piuttosto qualcosa di simile alla preoccupazione che prova un malato quando avverte un dolorino nuovo e capisce che quello è un altro sintomo del male da cui non riesce a guarire.Negli ultimi anni in Italia sono spariti dalle edicole quotidiani effimeri come Pubblico o Pagina99, giornali di nicchia come Europa, Liberazione e il Riformista, ma anche un’istituzione della stampa nazionale come L’Unità. Dal 2010 ad oggi i maggiori editori di quotidiani hanno ridotto l’organico di quasi un quinto, tagliando circa 4.200 persone tra impiegati, operai e redattori, mentre l’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, registra un calo di 3mila occupati tra il 2009 e il 2014 (una caduta del 15%). È di pochi giorni fa la notizia che al Corriere della Sera i sindacati hanno annunciato 18 giorni di sciopero – la protesta più dura di sempre – contro i nuovi 470 tagli chiesti da Pietro Scott Jovane, l’amministratore delegato del gruppo Rcs.Certo, ogni giornale ha una sua storia aziendale e culturale, ma le ripetute crisi nel mondo della stampa non sono casi isolati di aziende in difficoltà. Quello che è a rischio, ha scritto l’Autorità per le Comunicazioni in un’approfondita analisi dell’evoluzione del mondo del giornalismo in Italia, è il finanziamento dell’intero sistema dell’informazione. Per un paio di secoli i giornali sono andati avanti secondo un modello di business che ha grosso modo sempre funzionato: le redazioni producono ed elaborano notizie e analisi, i lettori pagano per leggerle e le aziende pagano per comprare spazi pubblicitari da affiancare agli articoli. Dal momento che non sempre il denaro che arriva da lettori e inserzionisti basta a coprire le spese (e in Italia, come in altri paesi mediterranei poveri di lettori, questo è sempre accaduto di rado) la stampa si è abituata a contare su altre entrate. Da un lato l’appoggio finanziario di mecenati, più o meno disinteressati, disposti a rimetterci dei soldi pur di vedere vivere un certo giornale e la sua visione del mondo. Dall’altro aiuti e agevolazioni dallo Stato che, come in altri paesi, interviene per favorire lo sviluppo di un’informazione pluralista e libera, elemento indispensabile per il buon funzionamento della democrazia.In questo modo la stampa era riuscita a trovare un certo equilibrio tra entrate e uscite. L’irrompere dell’informazione via Internet lo sta facendo crollare. Si è innescata una spirale negativa, nota l’Agcom: i bassissimi costi di produzione e riproduzione dei contenuti digitali su Internet hanno annientato le barriere all’ingresso nel mercato del giornalismo, permettendo un portentoso aumento dell’offerta di informazione, quasi sempre distribuita gratuitamente; la moltiplicazione degli spazi giornalistici ha "polverizzato" gli investimenti pubblicitari, sempre più distribuiti tra una miriade di soggetti, mentre l’enorme disponibilità di informazioni a titolo gratuito ha generato nei consumatori l’abitudine a non dovere pagare per leggere le notizie; questa abitudine sta facendo crollare gli introiti degli editori, che erano e restano – tranne qualche eccezione – gli unici finanziatori dell’informazione di qualità, che richiede tempo e risorse, e dell’informazione cosiddetta "primaria", quella che si fa attraverso il confronto diretto con i fatti e le fonti (e che quindi, dato che fatti e fonti sono numerosi, per essere fatta bene ha bisogno di molti giornalisti e molti stipendi).Abbiamo imboccato lentamente questa spirale durante gli anni ’90 e in vent’anni siamo scesi fino a entrare nella zona critica, quella in cui l’informazione tradizionale non regge più. Le chiusure già citate non dicono tutto. I giornali italiani vendevano 5,5 milioni di copie al giorno ancora dieci anni fa, mentre l’anno scorso sono arrivati a malapena a 3,5 milioni; tra il 2010 e il 2014 i ricavi degli editori di giornali sono crollati da 3 a 2,1 miliardi di euro; e dei sei maggiori gruppi editoriali del paese, solo uno riesce a produrre profitti (e molti meno di qualche anno fa).Non è una crisi dei giornali, è una crisi del giornalismo. È il fatturato dell’intero sistema dell’informazione – che oltre alla stampa comprende televisione gratuita e a pagamento, radio e la stessa Internet – a non riuscire più a crescere dal 2010 (da allora il giro d’affari si è ridotto di 2 miliardi di euro, a 14,7), perché gli effetti dei bassi costi della digitalizzazione valgono per tutti i tipi di contenuto.Il Web non ha allargato il mercato e nemmeno ha trovato il suo spazio rosicchiando quote della "torta" agli altri media: come Wikipedia ha fatto nel mondo delle enciclopedie, l’irruzione di Internet nel mondo dell’informazione ha provocato e continua a provocare il ridimensionamento del mercato.Spiega uno studio presentato alla conferenza dell’associazione mondiale degli editori Wan-Ifra che in generale a ogni dollaro guadagnato nel digitale corrispondono sette dollari in meno di ricavi nella stampa. Il Web non sempre cresce (ad esempio nel 2013 ha visto un calo dei ricavi del 2,4%) e in ogni caso in campo editoriale produce molta meno ricchezza di quella che brucia.I bilanci degli editori confermano che il conto danni-benefici dà un risultato pesantemente negativo. Nonostante occupino stabilmente i primi posti nelle classifiche dei siti web giornalistici più visitati, i bilanci dei grandi gruppi editoriali confermano che queste aziende stanno ricavando pochissimo dal digitale: dai 145 milioni di euro complessivi incassati per pubblicità e vendita di copie elettroniche nel 2010 siamo passati ai 204 dell’anno scorso. Sono solo 60 milioni di entrate in più in cinque anni, a fronte di un crollo di quasi un miliardo degli introiti "tradizionali". Anche aggiungendo i ricavi dei siti di informazione indipendenti nati e cresciuti in questi anni, i cosiddetti "nativi" digitali, non si raggiungono i 300 milioni di ricavi complessivi (e i 600 occupati). La speranza è che i vari sistemi di "monetizzazione" che si stanno sperimentando online, dai cosiddetti paywall, ai micropagamenti, fino al crowdfunding e al native advertising, migliorino gli incassi. Ma sono anni che i giornali di tutto il mondo ci stanno provando, pochissimi possono vantare risultati convincenti e ormai nessuno si aspetta vagonate di denaro dal Web.La prospettiva è quella di un sistema dell’informazione sicuramente molto più povero di quello al quale ci eravamo abituati. Così povero – se il ridimensionamento proseguirà a questi ritmi – da non potersi permettere di offrire ai cittadini un’informazione con un livello accettabile di qualità, capacità di coprire gli eventi, indipendenza e pluralismo.Non è detto che questo scenario sia inevitabile: le imprese e i giornalisti stanno cercando di trovare soluzioni nuove per reagire, il governo sta ripensando le modalità per sostenere il settore. Il sottosegretario Luca Lotti è incaricato di elaborare il disegno di legge di riforma dell’editoria e ha promesso un testo per la fine dell’estate. Di quel testo, su cui si lavora da diversi mesi, fino ad ora si è parlato pochissimo. Eppure la questione di come mettere a disposizione della cosiddetta opinione pubblica una dieta informativa sana ed equilibrata (e di come pagare il tutto) non è proprio secondaria.