Agorà

Il concerto. Zucchero, in missione per conto del blues

Massimiliano Castellani, inviato a Verona mercoledì 27 aprile 2022

Il concerto di Zucchero all'Arena di Verona

A questa prima del “World Wild Tour” di Zucchero, avrei tanto voluto che, dal “Palco Reale” dell’Arena di Verona, avesse assistito un fine intenditore, anche del cantar leggero, qual è stato Edmondo Berselli. Un ragazzo della Via Emilia l’Edmondo, (modenese di Campogalliano, 1951-2010) come Adelmo Fornaciari, Partigiano reggiano di nome e di canto, classe 1955. Berselli nei suo “scritti corsari”, raccolti in Quel gran pezzo dell’Emilia (Mondadori), qua e là si divertiva a stanare un po’ il «tondetto» Adelmo, bluesman di Roncocesi, mettendolo in contrapposizione al «suonato» compaesano rocker Vasco Rossi, primate di Zocca.

Ma sono sicuro che Berselli nella notte veronese del “liberi tutti” del 25 aprile, sarebbe stato fiero di vedere e ascoltare che, a trent’anni da quelle acute considerazioni da strapaese, mister “Sugar”, come lo chiamano gli inglesi («che non si capisce mai cosa vogliono dire quando parlano delle migliori band in “questo momento”» – cito Fornaciari dal palco dell’Arena – ) di strada ne ha fatta. E anche parecchia, specie da quando, anni ’90, lavorava di gola da umile “appoggio” e apriva le serate del tour scaligero di Eric Clapton. Adesso c’è caso che sia “the big guitar” Clapton, a dover aprire le danze londinesi di Zucchero che all’Arena, per la prima delle 14 repliche (con 12mila spettatori fissi sui gradoni e quasi soldout per tutto il ciclo) sotto le stelle di una notte di mezza pri- mavera (copritevi bene se avete il biglietto per l’Arena) c’è arrivato direttamente dalla Royal Albert Hall, dove si si è esibito il 21 e 22 aprile. «Lì era tutto libero, senza mascherine, il pubblico che si alzava, senza limiti, anzi eccessivo, perché l’Inghilterra ha aperto un po’ di più rispetto a noi», confida Zucchero da sotto il suo cappellone da Olmo adulto di Novecento, appena sceso dal magnifico palco psichedelico dopo due ore e mezza da “blues brothers”, assieme alla fantastica band, in volenterosa missione di pace. E prima di sviolinare lodi strameritate a questo cavalier cantante e rara star internazionale della musica nostrana, vanno citati uno per uno i suoi fidi scudieri.

A partire dal “direttore musicale” che lo accompagna da sempre, e non solo al basso, mister Polo Jones. Poi Kat Dyson chitarrista dalla Virginia, Monica Mz Carter, batterista da Atlanta, lo storico sax James Thompson e la tromba di Lazaro Amauri Oviedo Dilout. Peter Vettese all’organo ha preso il posto del fraterno Brian Auger («che poveretto, ha avuto un problema, è morta sua moglie »). La parte italiana della band è rappresentata dalla chitarra di Mario Schilirò, Adriano Molinari alla batteria e il tastierista Nicola Peruch. Menzione speciale per Me Oma Jali, cantante camerunense che Zucchero ha scovato dal talent francese “The Voice” rimanendone estasiato: «Sono rimasto impressionato da come cantava i brani di Aretha Franklin e ho detto: questa spacca... (bip)». Sanguigno Adelmo, che non ha scritto e non scrive affatto «canzoni da trattoria», come un po’ gli rinfacciava anche l’Edmondo, più affine alle melodie e i testi fini e armoniosi della premiata ditta Mogol-Battisti o al dylaniato De Gregori. Dal palco il blues di Zucchero è un cannone pieno di fiori, a cominciare dalla splendida Sarebbe questo il mondo. Linea pacifista tratteggiata senza proclami («io non sono un politico») con Ci si arrende e Madre dolcissima che nello speech introduttivo ha cambiato: «Al posto degli albanesi seppellirebbero i loro morti, ho messo gli ucraini». Zucchero fuori onda non può fare a meno di ricordare che nel giorno della Liberazione avrebbe era tentato di proporre Bella ciao («alla mia maniera») e che per questo tour erano previste «una data a Kiev, una a Odessa, una in Moldavia, una a Mosca, una a San Pietroburgo, una in Bielorussia... Ora non vado, e non perché ho paura della guerra, ma perché non mi sembra il momento. I russi sono molto fedeli come popolo, come anche gli ucraini».

Ci sono più di Tredici ragioni per amare questo energetico menestrello blues, che ogni tanto arroca, nostalgico, l’ugola, quasi ad evocare l’anima del suo epigono inglese Joe Cocker. Con il Miserere, richiama su questa terra assediata da pandemie e venti di guerra, la grande anima lirica di Luciano Pavarotti e poi il profeta delle “anime salve”, Fabrizio De Andrè, che in pieno accordo con Dori Ghezzi omaggia («con coraggio») in una versione di Ho visto Nina volare. Brano che impreziosisce il suo ultimo cd di “pezzi altrui”, Discover. Tempi duri per gli album di inediti: «Siamo arrivati al punto che se uno come me piazza 100mila copie deve fare i salti tripli per la gioia. Oro incenso e birra solo all’uscita aveva venduto 2 milioni e 850mila copie, e con l’aggiunta di Senza una donna alla fine arrivò a 8 milioni di copie». Stiamo parlando di uno scrigno prezioso, ancora solo in vinile, datato1989 – l’anno della caduta del Muro di Berlino – contenente evergreen riascoltati all’Arena come Diavolo in me, la degregoriana Diamante e quella Nice che incuriosiva Berselli, in quanto canzone originale nella dedica al filosofo Nietzsche.

Nella scaletta del 25 aprile, quest’ultima non figurava, ma potrebbe entrare da qui all’11 maggio, ultimo appuntamento veronese, con l’Adelmo che, nel mezzo della sua maratona, domani, 28 aprile, per una sera passerà la mano ai nipotini rock dei Måneskin. «Cosa ne penso dell’affermazione di Damiano (David) su Putin? I miei messaggi sulla guerra sul palco sono stati chiari. Dei Måneskin penso che siano una ventata di freschezza – dice il bluesman – . Il rock ’n roll negli ultimi anni era un po’ annacquato, sono diventati tutti perbenisti. E allora viva i Måneskin! Sul come si presentano... beh dico solo, l’avessi io il fisico di Damiano», sorride Zucchero che saluta e benedice tutti dal pulpito dell’Arena: «Dio salvi il blues!».