Agorà

A cento anni dalla nascita. Turoldo, un canto che ritorna nel cuore

Gianfranco Ravasi lunedì 21 novembre 2016

Padre Davide Maria Turoldo a Fontanella di Sotto il Monte (Magni)

Da quel mercoledì 22 novembre di cento anni fa, quando vide la luce nelle campagne friulane (un’origine da lui mai dimenticata) fino a quell’alba di giovedì 6 febbraio 1992, quando - ormai devastato e scarnificato dal "mostro" insediato nelle sue viscere (per usare una sua immagine) - si spense in una clinica milanese, padre David Maria Turoldo non aveva vissuto solo 75 anni "cronologici". La sua esistenza, come è attestato dalla splendida biografia recentemente elaborata da Mariangela Maraviglia per la Morcelliana, si era allargata in una sequenza di eventi, di interventi, di opere capaci di coprire diverse vite, difficili da coordinare e da descrivere.


In poche righe è perciò arduo delineare un ritratto di questo frate servita al quale ben s’adatta il motto del suo amico Carlo Bo: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni». E si potrebbe aggiungere «in tutti i luoghi», dalle zolle della nativa Coderno fino nei sotterranei della lotta antifascista, tra gli echi delle volte del Duomo di Milano, ma anche nella familiarità calda di Nomadelfia, dall’amatissimo ritiro per nulla eremitico di Sotto il Monte alle sale, alle aule, alle piazze vocianti, da un lontano e sterminato Canada o dagli Stati Uniti fino ai piccoli centri, fino appunto al villaggio bergamasco o pugliese.


In questo orizzonte biografico si inserisce anche la mia amicizia con lui, nata in seguito alla pubblicazione negli anni 1982-1984 di un mio sterminato commentario ai Salmi: tre volumi di oltre tremila pagine che Turoldo aveva studiato, riletto e approfondito. Per questo mi aveva cercato e aveva iniziato una consuetudine durata poi per anni fino alla sua morte. Nel pomeriggio di ogni domenica, infatti, scendeva dalla sua abbazia di Sotto il Monte, il luogo di nascita di Giovanni XXIII, a casa dei miei familiari a Osnago (Lecco), ove io mi recavo, dal Seminario in cui insegnavo, per il mio impegno pastorale del fine settimana. Ed era in quelle ore in cui parlavamo a lungo, che egli mi leggeva i suoi testi, che accoglieva con un’umiltà assoluta anche le mie riserve, che si inoltrava sui sentieri di altri libri biblici che io allora stavo commentando come Qohelet e il Cantico, destinati a diventare materia di altre sue riflessioni o poesie.


La sua figura imponente e sanguigna, dalla quale fuoriusciva una voce da cattedrale o da deserto, vanamente temperata dall’invincibile sorriso degli occhi chiari, aveva proprio nella Parola biblica il suo alimento vitale. «Servo e ministro sono della Parola», si era autodefinito, consapevole che ormai tutto il suo essere si era trasformato in «una conchiglia ripiena» dell’eco di quella parola infinita come il mare. Per questo un suo affettuoso ammiratore, interamente ricambiato, come il cardinale Carlo Maria Martini, nella presentazione del volume Opere e giorni del Signore, aveva comparato padre Turoldo a Efrem Siro e a Romano il Melode, straordinari autori di omelie bibliche cantate.


Forse bisognerebbe, finalmente, in modo sistematico rileggere l’immensa produzione poetica turoldiana proprio inseguendone la filigrana biblica. Per quel poco che ho potuto annotare nelle mie letture, il flusso letterario di questo «cantore delle dense ore di Dio» ha coperto l’intera sequenza delle Sacre Scritture, dalla Genesi, con l’irrompere della creazione dal grembo del nulla, fino all’Apocalisse e al suo sospiro finale del Maranathà, "Vieni Signore", passando soprattutto attraverso l’amatissimo Salterio. La pagina turoldiana è come un intarsio di citazioni, allusioni, ammiccamenti, evocazioni bibliche: il suo è lo spartito della Parola suprema divina orchestrata in parole umane.


Questo intreccio tra Parola e parole, tra storia divina e storia umana, fu sempre anche alla radice del suo impegno nell’incarnazione del cristianesimo, che si attestava spesso sulle frontiere più roventi o nei territori più disabitati da presenze religiose. I rischi di queste incursioni erano evidenti e sono a tutti noti. Ma padre Turoldo ha sempre tenuto alta la fiaccola della speranza cristiana, convinto che Dio è con noi «vagabondo/ a camminare sulle strade,/ a cantare con noi/ i salmi del deserto». Convinto anche che la meta ultima della storia è trascendente, là dove «le lettere del divino Alfabeto/ saranno in fiore per il Cantico Nuovo». E nei nostri giorni così superficiali si sente quanto sia ancora necessaria una voce come questa che inquietava la pigra pace delle coscienze col fuoco di quell’Alfabeto che risuona dal roveto ardente, per usare un’immagine a lui molto cara.


In questa luce è significativo accennare a un tema che tormentava Turoldo negli ultimi tempi della sua esistenza. Io stesso ne condivisi con lui la ricerca fino a un paio di giorni prima della sua morte, quando i dolori fisici lo attanagliavano e impotenti erano gli analgesici: era solo il dialogo con me attorno a quel tema che ancora lo faceva vibrare. Il nodo era proprio il silenzio di Dio, anzi, il misterioso intreccio-incontro tra Dio e il nulla. Esso scompaginava l’enfasi della sua voce, spettinava per l’ultima volta i suoi pensieri e i suoi versi, quelli appunto dei Canti ultimi, che è forse il suo capolavoro: «Dio e il Nulla - se pure l’uno dall’altro si dissocia…/ Tu non puoi non essere/ Tu devi essere,/ pure se il Nulla è il tuo oceano».


Questo groviglio di luce e di tenebra aveva la sua raffigurazione emblematica nel Cristo crocifisso («Fede vera è il venerdì santo/ quando Tu non c’eri lassù») e padre David ne era stato attratto come da un gorgo avvinghiante. Già lo era stato nelle liriche precedenti. «E Tu, Tu, o Assente, mia lontanissima sponda… Mio Dio assente lontano… Ma Lui, Lui sempre lontano, invisibile… La tua assenza ci desola… All’incontro cercato nessuno giunge… Notte fonda, notte oscura ci fascia - nera sindone - se tu non accendi il tuo lume, Signore!… Ma tu, Signore, sei bianca statua di marmo nella notte… Un Dio che pena nel cuore dell’uomo…».


Negli ultimi scritti, perciò, Turoldo si era messo in viaggio verso questa Gerusalemme capovolta in modo deciso, pellegrino del Nulla e del Tutto. Passava in mezzo a silenzi astrali, scivolava nel «cratere» del Dio incandescente, navigava «nei fiordi della speranza» e percorreva «tunnel sottomarini» in cui baluginano luci giallastre, inseguito sempre dallo sguardo di Dio «come di un falco appollaiato sul nido». Lungo quella frontiera tra essere e nulla Turoldo aveva incontrato Dio, come Giacobbe dopo la lotta al fiume Jabbok o come Giobbe dopo il suo lungo grido tenebroso. Su quella linea di demarcazione non c’è un Dio imperatore impassibile e onnipotente, bensì un Dio sofferente, perché «ogni creatura ti muore tra le braccia nel mentre che si forma e si fiorisce». Una fede autentica, quindi, purificata da tutta quell’enfasi ed entusiasmo che talora scandivano i suoi versi. Una fede «rocciosa e simile alle pietre della sua terra d’origine», come aveva detto il cardinale Martini nell’omelia della celebrazione funebre a Milano, che lo aveva accompagnato alla soglia ultima della sua vita.


Le iniziative. Da Milano a Camposampietro

Sono molte le manifestazioni culturali che in questi giorni sono dedicate al centenario turoldiano. Al sacerdote e poeta è dedicato il XIII Premio Camposampietro di poesia religiosa con una edizione speciale. In particolare il 23 novembre alle 20,45 a Camposampietro viene proiettato il video "David Maria Turoldo, viaggio alla ricerca di un profeta" realizzato col contributo della Provincia veneta dei Servi di Maria. Mentre venerdì 25, alla stessa ora, verrà presentato il libro di Mariangela Maraviglia "David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza".

A Milano, invece, nella basilica di Sant’Ambrogio, la sera del 22 novembre, la Fondazione Ambrosianeum e la congregazione dei Servi di Maria organizzano l’incontro "L’approdo e i ritorni. David Maria Turoldo e Milano", condotto da padre Ermes Ronchi, con letture di Maria Brivio e Roberto Carusi, commento musicale di Pietro Molteni e testimonianze di monsignor Erminio Descalzi, abate di Sant’Ambrogio, padre Espedito Maria D’Agostini, priore di Sant’Egidio in Fontanella di Sotto il Monte, e Marco Garzonio, presidente Fondazione Culturale Ambrosianeum.