Agorà

Storia. Il Milite Ignoto e il giovane Montini

Eliana Versace giovedì 4 novembre 2021

1916: un 19enne Montini (il primo a sinistra) con alcuni amici in partenza per il fronte

Il 4 novembre 1921, nel terzo anniversario della conclusione della Prima guerra mondiale, da cui l'Italia era infine uscita vittoriosa, il futuro papa Paolo VI si trovava in Piazza Venezia, insieme al padre Giorgio Montini, deputato del Partito popolare, per assistere agli onori tributati alla salma del Milite Ignoto, che dalla basilica patriarcale di Aquileia (dove era stata scelta da Maria Bergamas, madre di un irredentista disperso, tra undici bare di soldati sconosciuti rinvenuti nei diversi campi di battaglia) con un treno speciale venne trasportata a Roma e solennemente deposta al Vittoriano, accompagnata dal suono delle campane e dai colpi di cannone sparati a salve.

L’ingresso del treno commemorativo del Milite Ignoto a Roma Termini - Ansa/G.Lami

Il futuro Pontefice fu impressionato e commosso dalla massiccia e spontanea partecipazione della popolazione accorsa per assistere a quel memorabile e storico evento, e in una lettera scritta quel giorno stesso ai familiari rimasti a Brescia osservò che la «manifestazione per il Soldato Ignoto è stata ciò che di più grandioso si poteva immaginare». L'imponente cerimonia aveva radunato nella capitale, insieme alle massime autorità del Regno d'Italia, una folla di circa trecentomila persone, convenuta da tante parti del Paese: si trattava in gran parte di reduci di quel conflitto, di decorati dei diversi reggimenti, invalidi, mutilati, vedove e madri di fanti caduti e dispersi nella guerra da poco terminata, seguiti da bande militari che fecero risuonare le note della celebre «Leggenda del Piave» e, composto dallo stesso autore per quell'occasione, dell'«Inno al Milite Ignoto».
Agli occhi del sacerdote bresciano tutto questo apparve come «uno spettacolo d'esaltazione nazionale». Il giovane Montini aveva accolto nei giorni precedenti una rappresentanza di reduci giunti da Brescia nella capitale «per le onoranze al Soldato d'Italia», mentre solo due mesi prima, dal 3 all'8 settembre, si era svolto a Roma il Congresso nazionale della Gioventù cattolica italiana, in occasione del cinquantesimo anniversario di fondazione, al quale presero parte oltre ventimila giovani che, come riportò don Giovanni Battista al fratello Lodovico, «pregarono per i nostri morti di guerra, in ginocchio, in Piazza Venezia». Un così eclatante slancio emotivo si può meglio comprendere pensando a quanto le fiorenti associazioni giovanili cattoliche, nel triennio di guerra tra il 24 maggio del 1915 e il 4 novembre del 1918, vennero fortemente depauperate dall'obbligata partenza di migliaia di giovani verso il fronte. Proprio ricostruendo le vicende della Federazione universitaria cattolica italiana di quegli anni, Montini qualificò la prima guerra mondiale, definendola un «flagello inondante». «Forse – scriveva in un opuscolo a metà degli anni Venti – nessuna altra associazione quanto la Fuci diede una percentuale più alta di soldati alla patria. E che soldati. Partirono e nei Circoli si fece silenzio». L'associazione degli universitari cattolici venne privata anche dei suoi vertici nazionali (tra di essi andarono al fronte i dirigenti e futuri parlamentari democristiani Achille Marazza, Giovanni Battista Migliori e Giuseppe Spataro). Furono gli assistenti ecclesiastici a tenere in vita l'associazione, continuando ad "assistere" i giovani fucini anche durante la guerra, in maniera epistolare, incoraggiandoli e sostenendoli nella prova più difficile (sembra che l'assistente ecclesiastico generale della Fuci di allora, monsignor Gian Domenico Pini, nel periodo bellico avesse scritto oltre 14.000 lettere). Mentre il fratello maggiore di Montini, Lodovico, fu impegnato nel conflitto, Giovanni Battista, dichiarato inabile al servizio militare, seguì con trepidazione ogni evento della guerra, commovendosi per la conquista di Gorizia, soffrendo per la disfatta di Caporetto, annoverata da lui tra «le sventure d'Italia» e, in alcuni momenti di sconforto, arrivando a temere anche per le sorti della sua Brescia, minacciata dall'avanzata degli austriaci.

E, ricordando quelli che definiva «i vinti incolpevoli di Caporetto» (e «non traditori», precisava qualche anno dopo, riconsiderando le «vicende travolgenti» dell'ottobre del 1917 sul fronte isontino), Montini riconosceva «la dignità civile e militare» del Paese. «Li seguo – raccontava nel 1916, durante il secondo anno di guerra –, li seguiamo tutti i nostri soldati e al di sopra di ogni ricreazione, in fondo ad ogni chiasso sta il pensiero di loro, pensiero d'amore, di gratitudine, di compassione, di preghiera». Eppure il «desiderio delle notizie ci fa dimenticare la gravità delle notizie stesse: quanti ti sanno ripetere tutto il giornale e non sanno cosa significhi guerra – osservava Montini nel settembre di quello stesso anno –. E invece a dispetto d'ogni discorso, d'ogni civiltà, imperversa questo immane suicidio dell'umanità». Molto significativa, per il giovane Montini non ancora sacerdote, era stata la presenza al fronte come cappellani militari dell'amico di poco più grande don Francesco Galloni e soprattutto dell'oratoriano padre Giulio Bevilacqua, il maestro che ebbe tanta influenza nella sua formazione umana e spirituale tanto che, nel 1948, in una lettera, il sostituto della Segreteria di Stato Montini definirà l'amicizia con padre Bevilacqua come la «più fedele, più paterna e più cara», e da Papa, Paolo VI conferirà a padre Bevilacqua la porpora cardinalizia, concedendogli il permesso di restare da cardinale a vivere nella sua parrocchia bresciana.

Quando nella primavera del 1915 il Comandante supremo Luigi Cadorna reintrodusse nel regio esercito il ruolo di cappellano militare che era stato soppresso nel 1870, padre Bevilacqua chiese di arruolarsi in tale veste, spinto da motivazioni pastorali, e, dopo aver concluso il corso di allievo ufficiale, nel marzo del 1917 poté raggiungere la prima linea del fronte col grado di sottotenente degli alpini. In quel contesto l'ardimentoso sacerdote oratoriano riuscì persino a organizzare un commercio clandestino con gli avversari per scambiare pane e generi di conforto. Padre Bevilacqua, che nel giugno del 1917 si era prodigato in maniera infaticabile per confortare e soccorrere i feriti nella battaglia dell'Ortigara, «il Calvario degli alpini», ricevendone due medaglie al valor militare, dopo la rotta di Caporetto fu catturato e condotto prigioniero in un campo di concentramento in Boemia dove, alla vigilia di Natale del 1917, sfidando i divieti celebrò la Messa senza un altare, attorno a un rozzo tavolo dove – viene narrato – «nella sua logora veste di alpino, tiene in mano il Vangelo e dice cosa sia il Natale». Quest'atto di disobbedienza costò a Bevilacqua il trasferimento nel più duro campo di prigionia di Horowitz, in cui riuscì a tenere delle conferenze per gli ufficiali prigionieri incentrate sul prologo del Vangelo di Giovanni. Un suo compagno nel carcere in Boemia testimoniò come solo due cose contassero per padre Bevilacqua, «Cristo e la realtà. E bisogna farle incontrare». Si sarebbe così potuta rischiarare quell'esperienza di prigionia vissuta come una esclusione dal mondo in una condizione esistenziale di buio opprimente che annichiliva anche gli spiriti più valorosi e spavaldi. Annunciare Cristo in quell'aspro contesto di deprivazioni e svilimento significava portare un po' di luce nelle tenebre della sofferenza e della disperazione scaturita dal contesto bellico.

E proprio «La luce nelle tenebre» fu il titolo del libro che padre Bevilacqua, liberato e rientrato a Brescia nei giorni seguenti il 4 novembre 1918, pubblicò esattamente cento anni fa, nel 1921, con una prefazione di padre Agostino Gemelli. Recensendo il volume sulla rivista bresciana «La Fionda», Montini ritrovò compendiata in quest'opera la personalità collettiva «dell'uomo moderno, del pensatore d'oggi con tutte le energie, le stanchezze, i dubbi, le lotte, gli sconforti, e le speranze che le crisi filosofiche, scientifiche, religiose e sociali hanno suscitato nella spossata anima del nostro secolo». «La catastrofe parla – aveva scritto Giovanni Battista nel giorno della vittoria, il 4 novembre del 1918, al fratello Lodovico –. Parla la storia, e ci parla come un chirografo vergato di sangue, ci parla necessariamente della Provvidenza che sa trarre dal libero intreccio degli eventi umani un prestabilito ordine di bene. Di bene, non d'altro. Dunque la Vittoria ci parla di bene; guardiamola nel trionfo della giustizia».

Negli scritti giovanili di Montini è possibile rinvenire un sincero amor patrio e un'acuta passione civile, amplificati nel triennio di guerra sotto lo stimolo degli eventi bellici e ispirati dalla storia e dalla tradizione familiare: infatti la nonna paterna, Francesca Buffali, che il nipote chiamava affettuosamente «politica di prima forza», prestò soccorso ai feriti nel 1859, durante le battaglie della Seconda guerra di indipendenza, ricevendo per questo impegno l'elogio del garibaldino Nino Bixio, mentre il nonno paterno, Lodovico, nel 1848 si era arruolato nella Prima guerra di indipendenza, combattendo contro gli austriaci. E a molti giovani della stessa generazione di Montini, chiamati alle armi tra il 1915 e il 1918, la guerra contro gli stessi avversari di allora – guidati ancora dal medesimo sovrano, Francesco Giuseppe, che fu imperatore d'Austria dal 1848 al 1916 – veniva rappresentata dalla propaganda nazionalistica come una quarta e ultima guerra d'indipendenza, necessaria per completare l'Unità d'Italia e liberare le terre rimaste irredente. Tuttavia, sarà proprio il giovane Montini a spiegare in un articolo, pubblicato su «La Fionda» nel settembre del 1923, intitolato «Osservazioni elementari sul patriottismo», il senso più compiuto di questo termine, mettendo però in guardia da un distorto abuso del sentimento patriottico e dal pericolo di pensare la patria «come l'unica patria del mondo». Invece il patriota cattolico, sempre orientato dal supremo comandamento evangelico della carità, «amando la patria» – precisava il futuro Pontefice – non avrebbe rinunciato «ad amare l'umanità intera e ad abbracciarla in un sentimento fraterno di unione e solidarietà».


Quasi mezzo secolo dopo, nell'anniversario della vittoria, il 4 novembre del 1964, Paolo VI ricevette in udienza un gruppo di reduci ed ex combattenti e li esortò ad accrescere «i sentimenti della fratellanza e della pace fra di voi e verso tutti i popoli, anche quelli che ieri vi furono nemici», avvalorando così «i propositi generosi di chi fu buon Soldato». «Siamo convinti – spiegò il Papa – che un Ex Combattente, il quale converta in energie morali i ricordi del tragico dramma, a cui egli ha partecipato, abbia in sé una sorgente di alti pensieri, di esperienze umane, di desideri generosi, e che sia perciò idoneo, se non più a impugnare le armi della guerra, a ben maneggiare invece quelle della pace: vogliamo dire la concordia, il lavoro, la giustizia, la libertà». «Coloro i quali hanno fatto da bravi Soldati il loro dovere militare – concludeva papa Montini riprendendo e rendendo espliciti quei suoi personali convincimenti vissuti, maturati ed espressi, come si è detto, fin dagli anni giovanili –, ritornati alla vita civile, possono trarre dalla esperienza passata e dalla passione sofferta» un nuovo significato della propria vita, «quello che accresce il bisogno di Dio, il dovere della sua ricerca, la fiducia nella sua Provvidenza, la soddisfazione di credere e di pregare: il senso religioso, e, a ben guardare, il senso cristiano».