Agorà

Riletture. Francesca da Rimini, vittima «sanza tempo»

Pietro Pietrini mercoledì 9 giugno 2021

Il bacio fra Paolo e Francesca ritratto in un quadro di Amos Cassioli

Nel V canto dell’Inferno il sommo Poeta, superato il Limbo, discende dal cerchio primaio giù nel secondo e lì si imbatte nei peccatori carnali, coloro che in vita sottomisero la ragione alla passione. Nella moltitudine dei dannati e dei loro lamenti, grida e bestemmie, due di loro, che sono trascinati dalla bufera infernale quasi fossero un unico corpo, catturano completamente l’attenzione del Poeta, tanto da indurlo a manifestare a Virgilio il desiderio di parlar loro. Nei versi che seguono, tra i più celebri dell’intero poema, apprendiamo che in vita i due, Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, erano amanti. Colti sul fatto, furono uccisi dal di lei marito e fratello di Paolo, Gianciotto Malatesta, che Francesca era stata obbligata a sposare in un matrimonio combinato per ragioni di potere politico. Quando tutto questo accade, non siamo ancora entrati nel quattordicesimo secolo. La storia di Francesca è al contempo tremendamente antica e drammaticamente attuale: l’uccisione della consorte è notizia di ieri, di oggi e lo sarà anche di domani, non sappiamo fino a quando. Non sembra essere cambiato molto nei secoli, persino nelle leggi. Basta leggere il codice di Dracone che, nel 621 prima di Cristo, decreta la nascita del diritto penale.

Accanto all’omicidio volontario (che prevede la pena di morte) e quello colposo (punito con l’esilio), il codice di Dracone contempla anche l’omicidio legittimo, esente da pena. Rientra in questa fattispecie non solo l’omicidio commesso per legittima difesa o causato involontariamente durante una competizione sportiva, ma anche l’uccisione di chi reca disonore alla propria famiglia: nel caso di illegittima relazione carnale della moglie, della figlia, della sorella, della madre o della concubina, al cittadino ateniese (marito, convivente, fratello o padre) è consentito uccidere l’adultero colto in flagranza di reato. Preistoria, verrebbe da dire, oltre due millenni e mezzo fa. Davvero? «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella». Così recitava l’art. 587 del nostro Codice penale (c.d. Delitto d’onore) che peraltro, arrivando a contemplare anche l’uccisione della donna colta in flagranza di adulterio, sembra spingersi addirittura oltre Dracone (che della donna non fa menzione).

Si dovrà attendere la legge 442 del 10 agosto 1981 per la sua abrogazione. Sembra un secolo fa, invece non sono passati che quarant’anni. Il nostro Paese non era infelice eccezione: articoli non dissimili nella sostanza dal codice draconiano si trovavano nel sistema penale di quasi tutti i Paesi occidentali fino a tempi non lontani. Per molti altri Stati, come noto, è d’obbligo usare ancora l’indicativo presente. La soppressione fisica della donna è espressione della volontà di controllo assoluto sul suo agire, persino sui suoi sentimenti, da parte dell’uomo, marito, padre o fratello che sia. Possesso dunque, che nulla ha a che vedere con la passione. Questo è ciò che muove la mano del carnefice, nella storia di allora come nelle cronache di oggi. Non è un caso che Francesca sia il primo dannato con il quale Dante parla nel suo viaggio. Non è un caso neppure che, nell’incontro con i due amanti, sia a Francesca che Dante si rivolge, sia con lei e solo con lei che interloquisce. Paolo è accanto a lei, sullo sfondo, ma non parla, si limita a piangere. Uno stridente contrasto con lo stereotipo del sesso forte e del sesso debole che si radicherà nei secoli a venire.

Nella celeberrima anafora del suo travolgente racconto, attraversato da una passione che neppure la morte ha potuto soffocare, Francesca anticipa la terribile pena divina che attende Gianciotto, uxoricida e fratricida, immerso per l’eternità nel lago ghiacciato del nono cerchio dell’Inferno «Caina attende chi a morte ci spense». Pena ben diversa da quella prevista dalla legge degli uomini fino a qualche decennio or sono. Forse proprio perché scritta da uomini, nel senso di maschi. Il Canto si chiude con una figura retorica tra le più belle e famose mai scritte. Il turbamento del Poeta è talmente intenso che Dante è sopraffatto e viene meno, superando anche in questo lo stereotipo di genere già ricordato. Sul V canto ha detto qualcuno - si è scritto tutto quello che si poteva scrivere, tanta e tale è la sua meraviglia poetica. Nell’anno delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario della scomparsa del sommo Poeta, il dar voce e corpo alla condanna della violenza dell’uomo sulla donna è una lezione universale sanza tempo tinta.