Agorà

PARLA L'ATTORE. Dubbi e confusioni di Hopkins esorcista

Luca Pellegrini martedì 8 marzo 2011
Il sentimento e il sogno – Anthony Hopkins è anche un sognatore, compone musica e dipinge – hanno contraddistinto la sua prolifica carriera. Solo che per lui, talvolta, il primo diventa terrore e il secondo, un incubo. Per esempio con Hannibal, il killer cannibale. «Ma io ho recitato molti altri personaggi, voi ricordate solo quello». Ora ritorna sugli schermi con Il rito, in cui interpreta un sacerdote impegnato a sconfiggere il diavolo e che, alla fine, ne diventa vittima. Perché ha scelto il ruolo di Padre Lucas? «Se mi pagassero per leggere l’elenco del telefono, lo farei». Solo per questo? «Mi piaceva la sua ambiguità». Se poi si tenta di parlare del diavolo, rifiuta energicamente di farlo. E se volessimo, invece, parlare di paura? «La prima volta fu con la strega di Biancaneve, avevo quattro anni. Ma anche con Bambi, il mio primo film in assoluto: quando scoppia l’incendio, volevo andarmene». Avrà comunque contattato qualche specialista. «Padre Gary Thomas, che nel film è il giovane O’Donoghue. Mi domandò se credessi, risposi che accettavo questi casi come una deriva psicotica». I casi di possessione non mancano. «Si, ma uno scienziato direbbe: è il cervello che non funziona». Proprio convinto? «Tutto è possibile. Una cosa è certa: nessuno di noi ne sa niente. Qualcuno ha detto che la fede è una scommessa. Così, è meglio credere a una forza che ci sostiene piuttosto che vivere in una stanza senza luce e senza speranza». Quindi, meglio la fede. «Non sono ateo, anche se sono stato cresciuto così. E non mi metto a discutere con gli atei. Meglio essere felici che cercare di avere ragione». Questo atteggiamento come è nato? «Ho avuto un’esperienza dolorosa, ho capito che mi veniva data una seconda occasione, che era meglio ringraziare Dio di essere vivo. Comunque, ho continuato a non prendermi troppo sul serio». La soddisfa vivere così? «Non mi voglio complicare la vita, fare cose impossibili». Si è mai confrontato con un sacerdote? «Un padre gesuita era diventato il mio analista. Non mi sentivo buono, all’epoca. Mi ha fatto capire che perdere la fede è facilissimo». Ha paura che le succeda? «Ho incontrato alcuni anni fa un sacerdote australiano tormentato per questo. La sua vita si stava spaccando. Soffriva terribilmente. Gli dicevano: prega, prega. Non so che fine abbia fatto». Del diavolo, evita ancora di parlarne. Chissà perché.Invece, lo fa subito il regista, Mikael Håfström: «È presente in tutte le culture, le religioni, è in questo mondo, noi ne facciamo parte, dunque...» Sugli esorcismi: «Li conoscevo soltanto attraverso i film di Hollywood e i racconti popolari. Ho capito quanto poco ne sappiamo proprio ascoltando queste esperienze così drammatiche». Voleva raccontarle in un film? «Lo scopo del mio film non è se credere o meno agli esorcismi, ma seguire la storia di un giovane alle prese con la realtà del male». Ha mai pensato alla reazione dei cattolici per alcuni eccessi visivi e la delicatezza dei temi trattati? «Non ho mai pensato che il film possa offendere i credenti, non vedo alcun conflitto con la fede. Certo sono molto nervoso circa la loro reazione».Punto di vista simile per Colin O’Donoghue, alle prese, per il suo debutto cinematografico, con il personaggio di un dubbioso diacono: «Sentivo che questo era un personaggio giusto per me. Quando ho letto la sceneggiatura ero a un crocevia, esattamente come Michael, che si trova dinanzi alla decisione se proseguire verso il sacerdozio. Per questo il film non un vero horror, ma un dramma psicologico: Michael, Angeline e Padre Lucas sono tutte e tre persone che cercano di capire il loro percorso di vita». Sono costretti a farlo quando incontrano il diavolo, il male e il dolore.