Agorà

Il pianista Lotoro: «5.000 opere ritrovate». Dal lager musica per vivere

Alessandro Beltrami lunedì 26 gennaio 2015
Nei lager e nei campi di prigionia non c’era soltanto silenzio, il lamento dei prigioneri o le grida delle guardie. C’era musica. Parecchia e di ogni genere: classica e da ballo, jazz, inni, opere liriche, canzonette, cabaret. E tanta musica sacra: ebraica, cattolica, protestante... Una parte torna a risuonare domani sera all’Auditorium del Parco della Musica di Roma in Tutto ciò che mi resta, (ore 21, diretta su Rai5), concerto ideato in occasione della Giornata della Memoria da Viviana Kasam in collaborazione con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e la Fondazione Musica per Roma. Sul palco artisti come le cantanti Ute Lemper e Myriam Fuks, i violini di Francesca Dego e Roby Lakatos, Andrea Satta, leader dei Têtes de bois e figlio di un deportato a Auschwitz. E soprattutto il pianista Francesco Lotoro, impegnato da 30 anni in un faticoso lavoro di ricerca della “musica concentrazionaria”: «Ho esteso l’indagine a tutti i gruppi internati per ragioni religiose, pseudorazziali, sociali, politiche e ai prigionieri di guerra, tanto dell’Asse quanto alleati. L’arco cronologico scelto va dal 1933 al 1953, la morte di Stalin».Sono cinquemila a oggi le composizioni emerse (un’ampia panoramica è presente, con esempi audio, sul sito www.ilmc.it) e giunte a noi nei modi più diversi: se dai campi di prigionia militare, dove vigevano le convenzioni internazionali, i prigionieri potevano sperare di spedire a casa i propri lavori, nei lager la musica è sopravvissuta anche su sacchi di juta e su fogli di carta igienica. «A Westerbork, nei Paesi Bassi, i deportati dovevano coltivare patate: tiravano i pentagrammi sul terreno, componevano, ognuno ricordava un segmento che la sera veniva raccolto su un pezzo di carta igienica. Così è stato creato il Salmo 100 di Hans van Collen». A volte i brani erano salvati da guardie complici, come per Rudolph Karel, altri sono stati ritrovati in ricoveri di fortuna. Spesso si sono conservati solo nella memoria dei sopravvissuti.Nei lager del Reich il capocampo forniva spesso strumenti, sala prove, carta musica e sollevava i musicisti dai lavori più pesanti: «Ad Auschwitz – racconta Lotoro – c’erano sei orchestre, di cui una femminile, e persino un’orchestrina jazz. A Buchenwald un’orchestra di 83 strumenti, bande di ottoni e cori, a Nienburg am Weser fu possibile eseguire la Nona sinfonia di Beethoven con 150 elementi. Altrove, invece gli strumenti erano invece pochi. Non mancano mai però quelli poveri: chitarra, fisarmonica, persino ocarina». Si suonava per i prigionieri e per le guardie, in auditorium improvvisati, come le latrine, in sale adattate a teatro, nel circolo ufficiali, in occasione delle visite della Gestapo e all’arrivo dei treni dei deportati: «A Birkenau un’orchestrina accoglieva i convogli destinati alla gasazione, suonando musica nazionale di chi arrivava. Era una strategia psicologica per celare quanto sarebbe successo. Dopo la gasazione gli addetti militari, uomini e donne, andavano nella sala prove e chiedevano Schumann e Grieg per rilassarsi». Nei campi si canta per resistere, per mantere la dignità. «Nella camere a gas veniva intonato l’Ani Ma’amin, «io credo con forza che arriverà il Messia». Nascono spontaneamente canti che diventano inni comuni. Persone si sono salvate perché il loro canto ha commosso gli ufficiali nemici».La città-lager di Terezín è un caso limite: «C’erano nove orchestre, sette pianoforti a coda, senza contare gli ensemble di musica da camera. Vi erano stati radunati centinaia di musicisti, dal cabarettista agli esponenti dell’avanguardia, al punto che qui fu fondato lo Studio für Neue Musik, vera e propria Darmstadt ante litteram». Tra questi c’è Viktor Ullmann, di cui alcuni brani verranno eseguiti domani e la cui opera Der Kaiser von Atlantis, scritta e rappresentata nel lager, circola nei moderni cartelloni dei teatri d’opera (così come per la visita beffa della Croce Rossa a Terezín venne rappresentata Brundibar, di Hans Krása, oggi una delle più note operine per bambini). «È paradossale – commenta Lotoro – ma proprio grazie alla propaganda questi musicisti hanno potuto non rassegnarsi alla morte intellettuale. Ullman, morto ad Auschwitz, ha scritto che Terezín non ha impedito ma favorito la sua vena musicale. “Con questa musica abbiamo messo ordine al caos” dice, e aggiunge: “Non ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia”. A Terezin si assiste a una trasformazione mentale: gli ebrei non appendono le cetre ai salici, non si arrendono al lutto».Ora, secondo Lotoro, serve che questa musica diventi repertorio comune, perdendo l’aura di “miracolo”: «È ciò che gli autori avrebbero voluto. Occorre reinnestare un patrimonio di 20 anni di musica: a teatro, in sinagoga, in chiesa. Gustata e criticata per il suo valore. A questa musica, per essere davvero salvata, serve una cosa sola: normalità».