Quel che c'è da sapere sul film di Sorrentino a Venezia "La grazia"
Nel film di apertura di Venezia Toni Servillo è un presidente della Repubblica che deve decidere se firmare la legge sull'eutanasia. Un racconto che farà discutere, ma artisticamente altissimo

La grazia come bellezza del dubbio, come coraggio delle proprie responsabilità, come atteggiamento amoroso e paterno verso la vita, come gesto di tenerezza e commozione. Chiamato ad aprire in concorso ieri l’82esima Mostra del Cinema di Venezia, il nuovo applauditissimo film di Paolo Sorrentino, La grazia, appunto, segna la settima collaborazione del regista con Toni Servillo, che questa volta interpreta un Presidente della Repubblica Italiana, Mariano De Santis, vedovo, cattolico e padre di una figlia, Dorotea, interpretata da Anna Ferzetti, giurista come lui.
Manca poco alla fine del suo mandato, ma nel cosiddetto semestre bianco, in un Quirinale che rimanda a una condizione di noia e solitudine, De Santis ha ancora qualcosa da fare: scegliere tra due delicate richieste di grazia che interrogano la sua coscienza e la sua fiducia incrollabile nella legge, e decidere se firmare o meno la controversa legge sull’eutanasia. E così, in quelle lunghe settimane che precedono il suo tanto atteso ritorno a casa, il Presidente riflette anche sulle proprie scelte personali, sul rapporto con i figli e con una moglie amatissima, che non c’è più da otto anni, ma che non ha mai smesso di abitare i suoi pensieri, i suoi sogni. È con lei che dialoga tutti i giorni, struggendosi per un antico tradimento che ancora oggi fa male.
È un film d’amore, ribadisce Sorrentino, che si è ispirato a un fatto di cronaca – Mattarella ha concesso la grazia a un uomo che aveva ucciso la moglie affetta da Alzheimer – ma anche al Decalogo di Kieslowski, film che folgorò il regista in giovane età, affascinato dai dilemmi morali messi in scena. Dilemmi affrontati anche De Santis alle prese sia con due persone che hanno commesso degli omicidi in circostanze che indurrebbero al perdono, che con una difficile legge destinata a rispondere a una domanda cruciale: di chi sono i nostri giorni? Da cattolico De Santis è pieno di dubbi: se il Pontefice, nero e coi lunghi capelli rasta lo invita a non firmarla («Dio ci suggerisce delle domande, evita accuratamente delle riposte e con il mistero ci tiene in vita»), sua figlia Dorotea lo invita a incrinare i suoi principi, a ripensare alle proprie certezze. «Se non firmi sei un torturatore, se firmi sei un assassino», dice De Santis nel film.
Il Presidente riflette, canta il rap di Guè Pequeno e i cori degli alpini, fuma, osserva uno stretto regime alimentare imposto dalla figlia, cena con una sua vecchia amica, osserva un astronauta che si muove nella sua navicella spaziale in assenza di gravità. Soprannominato “cemento armato” per la sua solidità, il Presidente aspira alla leggerezza di una piuma e si muove spaesato una realtà che Sorrentino rende spesso surreale, astratta, poetica in un film denso e generoso, stilisticamente rigoroso, elegante, che lascia nello spettatore un senso di dolce pienezza.
«La grazia è un film sul dubbio – commenta Sorrentino – e sulla necessità di praticarlo, soprattutto in politica e soprattutto oggi, in un mondo dove i politici si presentano troppo spesso con il loro ottuso pacchetto di certezze, spesso contraddette il giorno dopo, che provocano solo danni, attriti e risentimenti, minando il benessere collettivo e il dialogo. Anche la responsabilità, che riguarda tutti, dovrebbe caratterizzare l’essere politico: la sua latitanza lascia oggi lo spazio a inutili esibizionismi, a bordate muscolari dannose quando non apertamente pericolose. De Santis inoltre è un padre nobile. Da uomo intelligente e animato dal dubbio, sa quando è il momento di tornare a essere figlio e mettersi in ascolto del presente. Ed è un uomo serio, serio come l’etica, che tiene in piedi il mondo. Ho voluto parlare di eutanasia, una questione difficile perché non si tratta di scegliere tra bene e male. Da anni pensavo che il dilemma morale fosse un formidabile motore narrativo».
Servillo, che dopo tanti ruoli capaci di fissarsi indelebili nella memoria e nel cuore del pubblico, riesce ancora una volta a sorprenderci con un’interpretazione piena di grazia e bellezza, come il film stesso, afferma: «Con il cinema di Paolo sono arrivati tanti personaggi belli, ma il fatto che la nostra settima collaborazione rilanci un ruolo così complesso e prismatico dimostra come non ci sia la voglia di appoggiarsi a quello che è già stato fatto». E a proposito del suo Presidente aggiunge: «Non mi sono ispirato a nessuno in particolare. Nel corso dei decenni abbiamo avuto presidenti vedovi, con figli, con una sola figlia. Presidenti giuristi e presidenti napoletani. Con questo personaggio non ho nulla in comune, ed è sempre eccitante interpretare qualcuno diverso da me. De Santis così come Jep Gambardella in La grande bellezza o Titta Di Girolamo in Le conseguenze dell’amore sono personaggi inventati. Se poi sono diventati delle persone nei pensieri e nei sentimenti degli spettatori, vuol dire che il nostro lavoro ha avuto un senso. Noi attori diamo corpo a cose che non esistono, tutto sommato siamo degli imbroglioni, trucchiamo le carte».
«Ad accomunarmi con Dorotea – dice invece Ferzetti – è il rapporto particolare avuto con mio padre Gabriele, presenza importante nella mia vita, che ha influito molto sulla scelta del lavoro che faccio. Molti aspetti del mio personaggio mi hanno aiutato a capire tante cose di me, come il sentirsi compressi e nutrire una grande passione per le cose in cui crede».
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