Perché il domani sarà ieri nel tempo dei Pink Floyd

"Wish You Were Here", nato tra alienazione tecnologica e lacerazioni intime torna 50 anni dopo a interrogarci su mancanza e sopravvivenza
December 9, 2025
Perché il domani sarà ieri nel tempo dei Pink Floyd
I Pink Floyd in uno scatto del 1975 / Storm Thorgerson, Sony Music Entertainment
Lo scorso 12 settembre sono ricorsi i cinquant’anni dalla prima uscita di Wish You Were Here, il disco forse più umano e più ambiguo dei Pink Floyd. Un album che non celebra soltanto un’assenza – quella di Syd Barrett – ma la trasforma in una lente attraverso cui leggere la tecnologia, il potere, le derive dell’industria culturale e soprattutto la fragilità dell’uomo davanti a ciò che perde. È un anniversario che pesa perché riguarda la memoria collettiva, ma anche perché Wish You Were Here è diventato, per intere generazioni, una grammatica emotiva per muoversi dentro la mancanza: quella che schiaccia e quella che, paradossalmente, tiene vivi. Perché il domani sarà ieri. E così il prossimo 12 dicembre esce, per Sony Music, la riedizione celebrativa (50th Anniversary) di quell’album, che verrà rilasciato in vari formati, tra cui cofanetto, CD, digitale e vinile. Questa nuova versione include sei versioni alternative e demo inedite, come quella di Welcome to the Machine che sul disco si chiama The Machine Song e una versione inedita di Shine On You Crazy Diamond. Oltre a diverse versioni della stessa Wish You Were Here. In quegli anni l’album fu registrato negli Abbey Road Studios di Londra, dove i Beatles produssero la maggior parte del loro repertorio tra il 1962 e il 1969.
Il ritratto spettrale di Sy Barrett, in un'opera di Noel Fielding, che ha creato delle tavole per i 50 anni di "Wish You Were Here" / Sonic Music Entertainment 
Il ritratto spettrale di Sy Barrett, in un'opera di Noel Fielding, che ha creato delle tavole per i 50 anni di "Wish You Were Here" / Sonic Music Entertainment 
Il primo asse del disco – e oggi potremmo dire: la sua vera profezia – è la riflessione sul dominio della macchina. Era il 1975 quando i Pink Floyd denunciarono, con ironia feroce, il potere dell’industria musicale attraverso Have a Cigar. La voce di Roy Harper - assoldato per l’occasione perché né David Gilmour né Roger Waters riuscivano a cantarla - incarnava quel cinismo patinato che ti dice «ti faremo diventare una stella» mentre ti svuota di tutto il resto («And did we tell you the name of the game, boy? We call it “Riding The Gravy Train”»). Ma il bersaglio non erano solo le major: era il sistema, la “macchina”, come possibilità permanente di alienazione. Nel 2025 questa profezia ritorna: algoritmi, piattaforme, ossessione per i numeri, la musica ridotta a funzione matematica. I Pink Floyd avevano già intuito la crepa tra progresso e disumanizzazione: lo spazio dove l’arte smette di essere esperienza e viene assorbita dall’ingranaggio che pretende efficienza e controllo. Il monito era già di allora, l’uso delle macchine poteva aumentare le capacità dell’uomo, come il suono elettronico nella musica, ma anche distruggerlo se la macchina “impara” a dominarlo. O come oggi dove l’uso dell’intelligenza artificiale banalizza e uniforma il talento. L’ascolto in Dolby Atmos di Welcome to the Machine - eseguita senza batteria - rende l’idea: il basso di Waters esprime la cadenza della catena di montaggio che aliena l’uomo, i riff con la chitarra di Gilmour, secchi e taglienti, sembrano esprimere la forgiatura di quella macchina che può soffocare l’umano nel futuro prossimo, che poi è l’oggi. Emerge ancora, quindi, la capacità visionaria dei Pink Floyd nell’essere sempre contemporanei per l’ascoltatore di ogni epoca.
La copertina originale dell'album che rappresentata due uomini d'affari che si stringono la mano, con uno dei due in fiamme / Sony Music Entertainment
La copertina originale dell'album che rappresentata due uomini d'affari che si stringono la mano, con uno dei due in fiamme / Sony Music Entertainment
Il secondo asse – il più intimo – è Syd Barrett. La sua non è un’assenza definitiva, ma una mancanza viva, un fantasma che respira. Quando Wish You Were Here esce, Barrett è vivo, ma altrove: lontano, scivolato via da quel mondo che pure aveva contribuito a creare. Shine On You Crazy Diamond non è un elegia, ma la testimonianza straziante di un affetto impossibile. Barrett diventa la misura del “non più” e allo stesso tempo del “non ancora”: una mancanza che non sai collocare, che ti trattiene in un limbo emotivo. Una nostalgia che paralizza. Ma dentro il disco c’è anche un’altra verità: per sopravvivere bisogna andare avanti, pur sentendo che ogni passo tradisce qualcosa di ciò che si era. Il 5 giugno 1975 Barrett, che da tempo si era allontanato dalla band, compare a sorpresa agli Abbey Road, ma è irriconoscibile, un fantasma che ormai dimora nel limbo della “mancanza”. Tutto ciò diventa struggente nel testo di Wish You Were Here. Questa ambivalenza – tra restare e proseguire – è il vero codice esistenziale dei Pink Floyd.
I Pink Floyd al lavoro nei "mitici" Abbey Road Studios di Londra / Sony Music Entertainment 
I Pink Floyd al lavoro nei "mitici" Abbey Road Studios di Londra / Sony Music Entertainment 
E oggi, cinquant’anni dopo, lo si vede ancora più chiaramente proprio perché i Pink Floyd non ci sono più nei fatti, ma resistono negli effetti. Richard Wright se n’è andato. Nick Mason è diventato un custode discreto, quasi museale. Gilmour e Waters non si parlano, non si riconoscono, non si tollerano: si insultano. Tuttavia, proprio la loro inimicizia dimostra la forza di ciò che condividono: la doppia faccia della stessa medaglia. Nel 2025 entrambi hanno pubblicato due album dal vivo che, pur opposti, pescano dalla stessa eredità e dalla stessa drammatica attualità. David Gilmour ha proposto l’album Live at The Circus Maximus (Sony Music), un’edizione – ampliata e ridisegnata – del suo concerto romano The Luck and Strange Concerts. Un lavoro levigato, lirico, dominato da una luce crepuscolare ma non malinconica. Gilmour rilegge i Pink Floyd come materia interiore: un flusso di memoria e di respiro, una continuità sensoriale che lega anche Live at Pompeii a Wish You Were Here, passando per On an Island e le sue derive cosmiche. È un “Pink Floyd” che parla di tempo e di perdono. Roger Waters, al contrario, ha pubblicato This Is Not Drill - Live From Prague (Sony Music), una poderosa rielaborazione del suo tour europeo. È un manifesto politico, narrativo, corrosivo. Waters usa il repertorio “floydiano come arma dialettica”: Shine On, Dogs, Wish You Were Here diventano cornici per leggere guerre, diseguaglianze, sorveglianza, distopie moderne. È un “Pink Floyd” che non consola ma accusa, che non ricorda ma denuncia. Eppure, senza Gilmour, questa lama politica di Waters non sarebbe così luminosa e viceversa: l’uno vive nell’attrito dell’altro. Due poli che si respingono e che, proprio respingendosi, rivelano l’essenza dei Pink Floyd: l’ambiguità, il conflitto, i grigi infiniti. È come se, cinquant’anni dopo, Gilmour e Waters continuassero a suonare lo stesso accordo, ma in tonalità opposte. Uno scava nell’interiorità, l’altro nel mondo. Uno cerca la pace del ricordo, l’altro il dovere della protesta. Ma entrambi tengono tra le mani lo stesso nucleo emotivo: quella sospensione tra ciò che abbiamo perduto e ciò che dobbiamo ancora attraversare. La stessa materia o essenza di Wish You Were Here. Ed è qui che questa edizione celebrativa tocca il cuore del nostro tempo: non parla solo della perdita di un amico, ma della perdita come condizione della vita. È un album che riconosce la nostalgia come parte della nostra identità, ma che non la celebra: la osserva, la interroga, la mette in crisi. Ti dice che la mancanza è vera, che il dolore è legittimo, che alcune assenze non si colmano. Ma allo stesso tempo ti spinge a non restare prigioniero del passato: a fare il passo successivo, anche quando pensi di non farcela. E forse è questo che ci lega così profondamente a Wish You Were Here: l’idea che la vita sia un equilibrio instabile tra ciò che ci tiene fermi e ciò che ci spinge avanti. Che il grigio non è indecisione, ma complessità e bellezza. Che certe assenze diventano parte della nostra forza, non della nostra resa. È un album che continua a dire, cinquant’anni dopo, che il bisogno di andare avanti è più forte della mancanza.

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