C'è humor nella webserie dei giovani malati di cancro
Presentata a Giffoni la seconda stagione di “Ho preso un granchio”, che guarda oltre: alla guarigione, al futuro, alla speranza, alla possibilità di raccontare un’esperienza

Chi ha detto che la malattia debba essere una condanna? E che non si possa guardare oltre, alla guarigione, al futuro, alla speranza, alla possibilità di raccontare un’esperienza che costituisce una fase della vita di tante persone? Arriverà il prossimo novembre la seconda stagione della webserie Ho preso un granchio realizzata da Progetto Giovani dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, promossa da Mediafriends, ente filantropoico di Mediaset, Mondadori e Medusa, e prodotta da Fondazione Bianca Garavaglia ETS. Fortemente voluta dal professor Andrea Ferrari, che punta a un approccio diverso alla malattia e alla sua “normalizzazione”, la serie coinvolge 25 adolescenti e giovani sottoposti a terapia oncologica che, attraverso sette episodi ideati, scritti e interpretati da loro stessi, raccontano con ironia e autenticità la loro quotidianità in ospedale, mostrando la vita e la speranza oltre le cure e i protocolli sanitari. Tra le numerose guest star di questa stagione anche Giovanni Storti e Gerry Scotti. A parlarne a Giffoni, oltre ad alcuni dei giovani protagonisti, sono venuti anche il regista Tobia Passigato e lo sceneggiatore e show runner Cristiano Nardò. «C’è ancora poca ironia nel trattare la malattia – dicono - anche se come autori ci siamo domandati se avevamo il diritto di scherzare su un tema del genere». Nardò: « Abbiamo aiutato i ragazzi a scrivere la sceneggiatura, ma sono loro a raccontarsi mentre noi prestiamo le nostre competenze per fare in modo che si arrivi a un risultato. Le scelte artistiche sono dei ragazzi e noi siamo al servizio della loro narrazione.
Ognuno degli episodi nasce da una verità a proposito della loro condizione, da un’esperienza che li accomuna tutti e che emerge da un confronto collettivo. Da qui si parte per individuare una storia e poi scrivere una sceneggiatura». E i ragazzi che partecipano alla serie sono stati scelti in base alla loro disponibilità di esporsi e mettersi in gioco. Passigato: « Abbiamo a che fare con una generazione che ha imparato a raccontarsi attraverso i social, ma poi ci sono anche quelli capaci di modificare la propria performance, come dei veri attori, reagendo alle diverse indicazioni». Rivolta ai ragazzi, ma anche ai genitori alle prese con la malattia dei propri figli, la serie smantella molti pregiudizi e luoghi comuni. Passigato: « Abbiamo scoperto quanto i ragazzi giochino paradossalmente con l’essere ammalati, sventolando una virtuale C-Card, Carta Cancro, per approfittare di certi privilegi, come ad esempio saltare un’interrogazione, trasformando la propria condizione in un’opportunità». Nardò: «Una delle prime cose che ci hanno chiesto i ragazzi è stata quella di normalizzare la malattia, con un capovolgimento di prospettiva, raccontandola con una sorta di humor nero. E noi li abbiamo aiutati a trovare le parole». Passigato: «È bello lavorare con gli adolescenti, troppo grandi per essere bambini e troppo piccoli per essere adulti. Per questo rischiano di essere dimenticati. L’adolescenza è una fase della vita dove tutto cambia e c’è bisogno di guida e stimoli». Nardò: «Un’età un cui si costruisce se stessi, la propria identità attraverso il cambiamento del corpo e un modo diverso di comunicare. Pensate dunque a che impatto può avere una diagnosi di cancro su un adolescente che in quel momento sta formando la sua vita. Quando sei pronto a spiccare il volo e la malattia ti trascina indietro. E al tempo stesso pensate che impatto potrebbe avere il racconto di questi ragazzi su quelli che stanno iniziando una terapia».
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