ChatGpt dialoga, ma sono parole prive di umanità
Le macchine che parlano assumono un forte ruolo emotivo per chi le usa. Ma non hanno una coscienza, né conoscenza vera del mondo, dei sentimenti, del dolore

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Così inizia il Vangelo di Giovanni nella traduzione italiana. Nella versione latina al posto di “verbo” si trova “verbum”, mentre in quella greca compare “logos”, che significa parola, discorso, ragione. Il libro della Genesi inizia in maniera diversa «In principio Dio creò il cielo e la terra», con la descrizione di un atto creativo di due oggetti fisici. Una grande differenza tra l’entità astratta della parola e quella concreta del mondo. Nel saggio del 1871 The limits of natural selection as applied to man, Alfred Russel Wallace affermò che il cervello dei primi ominidi è poco più piccolo di quello degli uomini moderni ma immensamente più grande di quello degli animali più evoluti. Wallace non si spiegava perché gli ominidi avessero sviluppato la capacità di provare sentimenti ed emozioni, di ragionare e pensare astrattamente. Riteneva tutto ciò completamente inutile e di nessuna importanza per le loro abitudini, desideri, benessere. Ancora più inutile e inspiegabile era per lui la capacità di avere un linguaggio, con cui comunicare e trasmettere concetti ed emozioni. Poiché l’evoluzione naturale non era in grado di spiegare questo straordinario salto invocava l’intervento di un’intelligenza superiore che avrebbe guidato lo sviluppo delle capacità cognitive umane.
Adesso sappiamo che il linguaggio è emerso molto lentamente con la crescita dimensionale del cervello umano, spinta dall’uso di utensili, dalla cura della prole e dalla necessità di trasferire il patrimonio culturale in maniera epigenetica. Il linguaggio, le parole, hanno consentito ai primi uomini di passare da un mondo fisico, percepibile solo con i cinque sensi, a un mondo virtuale in cui tutto viene percepito e comunicato mediante suoni e simboli. Il distacco tra significato e significante ha origini antiche e le prime parole del Vangelo ne colgono l’essenza, anche se in una dimensione trascendente. Quando un oggetto mostra qualità straordinarie si dice che “gli manca solo la parola”. La visione antropocentrica colloca la parola al centro dell’attenzione, perché consente a chi ne è dotato di dimostrare il possesso della coscienza, della capacità di pensare e, quindi di essere. Fino a qualche anno fa le macchine non avevano il dono della parola. Emettevano suoni, come la radio e la televisione, ma lo facevano in maniera inconsapevole, meri strumenti tecnologici. Adesso parlano con gli umani, rispondono alle loro richieste di informazioni, di istruzioni su come agire, di consigli e di parole di conforto. Lo fanno perché l’intelligenza artificiale generativa che le anima ha fatto il grande salto, come quello che gli ominidi hanno fatto migliaia di anni fa.
Il dono della parola implica la capacità di comprenderne il significato? Superato lo stupore iniziale, molti hanno detto che le macchine sono solo “pappagalli stocastici”, che mettono in fila parole sulla base delle loro proprietà statistiche. Sanno parlare ma non sanno ragionare, non sanno collegare le parole al mondo reale, hanno allucinazioni a volte difficili da riconoscere. Sono tutte critiche giuste, suffragate da ricerche scientifiche che ne hanno verificato la validità oggettiva. Tuttavia, 700 milioni di persone usano ChatGPT, inviando ogni settimana 18 miliardi di messaggi. Lo fanno prevalentemente per motivi personali, più del 70%, lasciando il rimanente 30% a supporto delle attività lavorative. Evidentemente a ChatGPT non mancano le parole, e devono essere molto importanti per tutti coloro che lo usano. Parlare con le macchine non è una novità. Lo sanno gli informatici che scrivono programmi software utilizzando i linguaggi di programmazione. Non si tratta di un dialogo ma di un modo per formalizzare gli algoritmi e far in modo che le macchine possano eseguire i calcoli necessari alla soluzione dei problemi. Non capiscono il significato dei comandi, eseguono soltanto operazioni matematiche su dati numerici. Adesso la loro capacità di utilizzare il linguaggio naturale, di parlare usando le nostre parole, ha cambiato tutto. Per prima cosa non si limitano a eseguire comandi ma sono in grado di trasformare una richiesta espressa in linguaggio “naturale” in un programma che poi sarà eseguito, come se fosse stato scritto da un umano. Inoltre, sono in grado di utilizzare il risultato del calcolo per rispondere alla richiesta iniziale, sempre in maniera “naturale”. Una grande rivoluzione concettuale, che amplifica le capacità umane di analizzare problemi e di risolverli in maniera computazionale. L’intelligenza artificiale generativa ha attivato un collegamento molto stretto e simbiotico con gli umani.
Una macchina che parla, che ascolta senza stancarsi, che non rivela ad altri ciò che ascolta assume un forte ruolo emotivo nei confronti di chi la usa, soprattutto se è dotata di empatia. Uno dei grandi problemi sociali è la solitudine, esacerbata dalla decrescita demografica, dalle città prive di spazi di aggregazione, dall’uso sempre crescente dei cellulari. Le giovani generazioni hanno imparato a usarli fin da piccoli, a comunicare con i loro coetanei in maniera nativa. Ora che le macchine parlano, per loro è scontato ascoltarle e dialogare. Ma sappiamo con certezza che non hanno una coscienza, non hanno una conoscenza vera del mondo, dei sentimenti, del dolore. Parlano perché hanno “letto” una quantità impressionante di parole scritte da altri, parlano per sentito dire e non per aver vissuto e provato esperienze reali. Le parole delle macchine sono effimere, affascinanti ma prive di umanità. Il loro principio non è divino, naturale, e non potrà mai esserlo. Saranno sempre parole artificiali.
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