giovedì 4 dicembre 2014
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È stata una “carriera-mosaico” quella di Charles W. Yelverton (oggi 66enne), e anche breve rispetto al suo grandissimo talento: ha giocato meno di 10 anni come professionista cambiando la canotta per ben sette volte. Nato a New York il 5 dicembre 1948, Giocatore poliedrico, capace di passare dal ruolo di guardia o ala piccola fino a quello di playmaker, ha vinto uno scudetto e una Coppa Campioni nei tre anni trascorsi a Varese (in due riprese). Ha debuttato nella Nba nella stagione 1971/’72, scelto da Portland come numero 25 al draft. Nella stagione precedente trascinò la sua squadra, la Fordham University di New York, nella fase finale del campionato Ncaa con un record di 26 vittorie e 3 sconfitte.Se Geoff Dyer una notte d’inverno capitasse al bar della piazzetta del borgo di Miazzina, ascoltando il jazz melanconico di Charlie riscriverebbe il suo “Natura morta con custodia di sax”. La natura qui, è quella viva e vegeta della Val Grande, il Parco nazionale che verdeggia proprio sopra l’Eremo di Miazzina (l’ex sanatorio aperto nel 1924, ora casa di cura) affacciato sul Lago Maggiore. La custodia del sax appena richiusa, invece appartiene a una leggenda del basket, Charlie Yelverton.  Appuntamento quasi al buio, al tavolo de La Baita, dove per le gemelle Marina e Paola, e per tutti gli abitanti del borgo, «compresi gli elfi e le volpi del bosco dell’Alpe Pala», lui è semplicemente “the big friend Charlie”. «Anche per i bambini del minibasket di Laveno, che alleno ogni mercoledì, sono solo il “coach Charlie”. Loro non sanno mica cosa sono stato…». Il “gigante” di Miazzina, ma nemmeno troppo per aver lavorato sotto canestro, «appena 190 centimetri d’altezza », è stato la più grande ala piccola apparsa su un parquet italiano negli anni ’70. Un talento, cresciuto nella povertà e le mille tentazioni diaboliche del ghetto di Harlem.  A salvarlo dalle risse mortali e dagli spacciatori pronti a prenderlo nelle loro gang, è stata la passione per il jazz, che da piccolo gli aveva trasmesso suo padre, “Charles Roscoe”, ma soprattutto la mano forte e tenace di fra’ Duffy, il frate irlandese che lo ha gettato nel playground dell’oratorio della scuola. Lì, tra un terzo tempo, arresto, passo e tiro veloce da “little champ”, è cresciuto in fretta, fino all’approdo nei Rams, il quintetto della prestigiosa Fordham University di New York. Il college fondato nel 1841 dai gesuiti, in cui ha studiato anche il suo “sosia”, l’attore Denzel Washington.  Sorride Charlie per l’accostamento al premio Oscar, si aggiusta la visiera dell’inseparabile cappellino di Fordham e dice brindando: «Ma Washington è più giovane di me, io sono del 1948. Mi presero perché con il basket ci sapevo fare, ma anche perché non ho mai disdegnato lo studio dell’uomo e della società. Mi iscrissi a sociologia e facevo tirocinio con gli homeless, i senza tetto dei bassifondi newyorkesi». Con un occhio di falco sempre rivolto a canestro e un altro alla povertà che lo circondava, Charlie nel draft del 1971 fece il grande salto nella Nba, scelto dai Portland Trail Blazers. Sembrava l’inizio di una carriera radiosa tra i titani a stelle e strisce, «27 partite vinte su 30», quando incappò nella più clamorosa delle stoppate. L’anno dello scandalo Watergate, 1972, in piena guerra del Vietnam, il suo affronto personale al governo Nixon: prima del match Portland Phoenix creò un memorabile incidente diplomatico. «Al momento dell’inno nazionale per protesta non mi alzai in piedi, rimasi seduto in panchina. Non volevo sentirmi responsabile della fine ingiusta di un’intera generazione che di certo era contraria a quella sporca guerra. In Vietnam sono caduti tanti ragazzi, molti erano anche dei giocatori di basket che conoscevo, così come avevo ascoltato il tragico racconto delle loro morti dai genitori». Un civilissimo «No war!», come quello gridato dal re dei massimi Muhammad Ali («il mio idolo») che creò un incredibile polverone mediatico intorno al “dissidente Yelverton”: «Alla stampa che mi chiese il “perché ?”, allora risposi: Dio mi rispetta quando lavoro, ma mi ama quando canto. Quarant’anni dopo, alla cerimonia del mio ingresso nella New York Hall Fame, alla domanda “rifaresti ancora quel gesto ?” ho detto: “Sì, ma invece di restarmene seduto questa volta mi inginocchierei”… ». Portland aspettò la fine di quella stagione, («ero troppo utile nell’economia della squadra») per tagliarlo. Finì a spasso, nessun club della Nba era più disposto a metterlo sotto contratto. «Persino un amico d’infanzia come Kareem Abdul Jabar mi voltò le spalle, aveva paura anche di salutarmi». Proprio quel Jabar futura stella dei Los Angeles Lakers che aveva regalato il sax al suo “brother Charlie”. Quel sax ce l’ha ancora, «lo suono tutti i giorni», ed allora divenne l’unico compagno nelle lunghe notti passate in auto, andando incontro alle mille luci di New York. «Facevo il taxi driver: turno dalle sei di sera alle sei del mattino. Appena racimolavo la mia quota giornaliera, staccavo per scappare al Village Vanguard, il mitico locale di Greenwich dove hanno suonato tutti i grandi del jazz». Un anno vissuto on the road, «comunque uno dei più belli della mia vita», prima di un lauto ingaggio offertogli dai greci dell’Olympiacos. «Ma anche lì ero capitato nel periodo peggiore, quello del regime dei colonnelli. Al tramonto ad Atene se ti trovavano in quattro per strada ti arrestavano per adunata sediziosa. Crazy no?».  Meglio fuggire dalla follia dittatoriale e attraversare il Mediterraneo. Con il team itinerante della Riccadonna si presentò in tournée in Italia e lì avvenne la folgorazione di Sandro Gamba. «Il vero genio del vostro basket il mio amico Gamba, fu lui a volermi a tutti i costi all’Ignis Varese. Ero l’“americano di Coppa”, in un tempo in cui nella Serie A si potevano tesserare massimo due stranieri. Forse, e lo dico io, se il basket italiano vuole tornare ad essere vincente dovrebbe fare come in quegli anni, solo due stranieri per squadra». Con l’altro americano, il biondo di Filadelfia Bob Morse e l’azzurrissimo Dino Meneghin, «fortissimi e i più pagati dal “cumenda” Giovanni Borghi in quanto lunghi: loro superavano i 2 metri», Yelverton salì sul tetto d’Europa, con tanto di record che resiste ancora oggi. «Battemmo il Real Madrid in finale dopo aver vinto tutte le partite».   Nella sua bacheca personale vanta anche uno scudetto, stagione 1977-’78 con la Mobil Girgi Varese e un’altra finale di Coppa dei Campioni nel ’79, persa contro il Bosna Sarajevo. Ma quell’anno, il 7 marzo, al palazzetto di Varese visse la “partita della vergogna” contro gli israeliani del Maccabi Tel Aviv: un gruppo di skinhead sugli spalti inneggiò al genocidio nazifascista degli ebrei. «Il povero Aldo Giordani della Rai a fine gara voleva intervistarmi, ma rifiutai lasciandomi sfuggire: se la prendono così con gli ebrei, figurarsi con i neri...».  Quella sera Charlie fece la scoperta del “razzismo italiano”. «In certi palazzetti come Cantù, a Milano o a Bologna facevamo la “doccia” in campo con gli sputi dei tifosi avversari e “sporco negro” me lo sono sentito gridare un po’ ovunque. Però, ieri come oggi, più che di razzismo parlerei di “pregiudizio” che è tipico degli imbecilli, come quelli che quando giocavo alla Pintinox Brescia mi telefonavano a casa per minacciarmi, dicendomi di essere del Ku Klux Klan».  Ci ride su oggi il vecchio Charlie che, dopo gli ultimi rimbalzi da professionista in Svizzera, al Viganello, e «20 punti di media, quasi quarantenne, nei dilettanti del Saronno», è rimasto sempre da noi, per suonare e insegnare «l’alfabeto e la musica del palleggio ai bambini». A un suo campus estivo un’estate dei primi ’90 si iscrisse un certo Kobe Bryant. «Me lo chiese suo padre, Joe Bryant, se potevo trasmettere i fondamentali al “piccolo Kobe”. Un fenomeno, si vedeva, anche di generosità: quando firmò il primo contratto con l’Adidas (5 milioni di dollari) Kobe si ricordò di me spedendomi degli scatoloni pieni di canottiere, palloni, cappellini... ». Un pensiero di rara riconoscenza che lo fa stare bene, come la settimana che andò a portare «il mio basket e il mio jazz ai bambini terremotati dell’Aquila». Mentre diventa cupo quando dice: «C’è gente di Castelletto e di Varese che si nega al telefono da un anno, mi deve 2mila e 500 euro per aver allenato la loro squadra giovanile». Soldi che servono a Charlie, «perché una pensione non ce l’avrò e con la pallacanestro dei miei tempi non ci si arricchiva». Così, anche per sbarcare il lunario suona in tre formazioni. Miles Davis, Charlie Parker, ma anche “Crêuza de mä” di Fabrizio De Andrè in repertorio, e dopo ogni concerto, all’alba se ne torna stanco, ma felice, nel suo amato paese sopra il lago. «Ho già visto tanto mondo, l’America per me adesso è qui dove vivono anche i miei due figli, Jessica e Mathew. Cosa sogno per il futuro? Una terra più buona ed onesta, senza guerre. E magari imparare a suonare la “salsa-jazz” con il mio sax».
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