sabato 3 agosto 2019
Far comprendere l’illegittimità di teorie filosofiche che pretendano di stabilire princìpi immutabili e vadano oltre l’oggettività dei fatti. Pubblicate le note di un suo studente a Cambridge
Ludwig Wittgenstein

Ludwig Wittgenstein

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«La filosofia potrebbe essere insegnata (vedi Platone) semplicemente facendo le giuste domande, in modo da farvi ricordare». Annota così, Peter T. Geach, nei suoi appunti dell’anno accademico 1946-1947, le parole pronunciate da Ludwig Wittgenstein durante il suo ultimo corso tenuto a Cambridge prima delle dimissioni. Oggi, anche al lettore italiano, è consentito seguire il cammino di pensiero di Wittgenstein compiuto durante il corso e riprodotto in Lezioni di psicologia filosofica grazie alla traduzione di Tiziana Fracassi e alla curatela di Luigi Perissinotto (Mimesis, pagine 190, euro 18).

Nelle parole riportate all’inizio e tratte dalle note di Geach c’è certamente Wittgenstein. Ma non solo lui. Come mette in luce Perissinotto nell’introduzione, esse non possono costituire una fonte primaria per incedere tra i meandri del pensiero del filosofo viennese. Non sono certo paragonabili al Tractatus logico-philosophicus e neppure alle tarde e postume Ricerche filosofiche. E non vanno nemmeno di pari passo con i manoscritti lasciati inconclusi o i dattiloscritti ritrovati alla morte del filosofo avvenuta nel 1951 perché risentono della mano di chi li ha scritti e non solo della voce di Wittgenstein. Eppure non sono meno importanti, benché per ragioni diverse dalla filologia.

Potrebbe certo essere più che golosa per gli studiosi la tentazione di confrontare quanto Wittgenstein veniva dicendo ai suoi studenti col lavoro a cui avrebbe atteso negli ultimi anni di vita e che tanta influenza ebbe nella storia della filosofia della seconda metà del Novecento. Eppure molto interessante è anche lo stagliarsi di un’altra opportunità. Entrare nel cuore del laboratorio filosofico del pensatore mentre insegna pensando e pensando insegna.

«L’insegnamento è stato per Wittgenstein – scrive Perissinotto – una parte essenziale della sua ricerca filosofica. Come molte testimonianze ci lasciano intendere, Wittgenstein pensava davanti ai suoi allievi e, le volte che gli riusciva, con i suoi allievi. Le sue lezioni, insomma, non erano semplicemente un mezzo per comunicare un pensiero già formato e concluso». Per questo gli appunti di Peter Geach, e proprio i suoi e non altri, sono una delle migliori finestre per osservare il pensiero di Wittgenstein nel suo farsi.

Dello stesso corso, infatti, esistono altre ricostruzioni che, nella versione inglese del 1988, vennero pubblicate insieme a quella di Geach. Eppure, per quanto interessanti per la filologia, esse lo sono di meno per assaporare l’esperienza di pensiero condotta da Wittgenstein. Altri due studenti tra il 1946 e il 1947 avevano infatti frequentato il corso di psicologia filosofica a Cambridge. Sia Kanti Shah sia A. Camo Jackson hanno annerito fogli per riprodurre quanto si diceva in aula, e di cui Perissinotto annuncia la prossima pubblicazione. Ma queste note sono state rifinite e riviste dai giovani filosofi per dare a esse una migliore sistematicità facendo però perdere a loro qualcosa. Invece le pagine di Geach sono forse più confuse, meno lineari, talvolta inconcludenti ma proprio per questo interessanti. Sebbene, come tutti gli appunti, siano filtrati dagli interessi, dallo stile, dai talenti dell’estensore essi sembrano riprodurre in presa diretta il divenire di un pensiero che cerca di acquisire una forma ancora non data.

Non a caso il fluire degli interventi di Wittgenstein è spesso interrotto dalle domande dei presenti come quando Geach, convertito al cattolicesimo nel 1938, gli propone il confronto con alcune pagine della Summa Theologica di san Tommaso d’Aquino sulla capacità degli angeli «di conoscere le intenzioni altrui ».

Gli appunti di Geach consentono, per il modo in cui sono stati presi e pubblicati, di riconoscere dal vivo la convinzione di Wittgenstein che il pensiero sia un’attività in continuo movimento e che incede attraverso il domandare come avrebbe sottolineato lo stesso filosofo viennese durante il corso.

E non a caso. Infatti, per Wittgenstein, la filosofia non è una dottrina, ma è un’attività. Non può, e non deve, esprimere enunciati su fatti perché questo spetta alla scienza. E la filosofia non lo è. Però non significa che le tocchi in sorte l’inutilità e l’insignificanza. Essa, fin dal Tractatus, e ancora di più lo sarà negli scritti successivi, deve dire che cosa il pensiero non può fare, denunciando in particolare l’illegittimità della ricerca di costrutti tesi a definire i princìpi assoluti, i fondamenti oggettivi e totalizzanti del reale, le conoscenze basate su quanto procede oltre i fatti.

Solo rimanendo fedele al suo compito essa permette di eliminare false credenze intorno al linguaggio e procedere a quella che Wittgenstein definisce un’attività volta al «chiarificarsi di proposizioni» e indispensabile all’uomo per liberarsi dalle illusioni e incertezze sulle possibilità del sapere. Il cammino del «chiarificare» però non avviene in astratto ma nel confronto «con la vita umana ordinaria e, più ci allontaniamo dalla vita umana ordinaria – direbbe Wittgenstein – meno significato riusciamo a dare» a certe espressioni.

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