martedì 1 luglio 2025
Iniziato il torneo nel tempio inglese della tradizione. La sfida per Sinner sarà quella di vincerlo: è l’ultima tappa per l’Olimpo dei numeri 1 indiscussi
Jannik Sinner

Jannik Sinner - Ansa

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Il trono da re del tennis, per ora nelle mani di Jannik Sinner, ma con un Carlos Alcaraz intenzionato a spodestarlo, non si deciderà a Wimbledon ma a fine estate nei tornei “sul cemento” negli Stati Uniti. Agli storici e leggendari Championships che si tengono, per la 138esima volta, sui campi in erba dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Londra, fino a domenica 13 luglio, Sinner, tuttavia, è chiamato a completare il suo viaggio iniziatico fra i campioni di questo sport, vincendo il torneo, passando dallo stato di fuoriclasse assoluto a mito. Perché Wimbledon è considerato - a ragione - la competizione della verità. Anche perché Wimbledon non è un torneo: è un esame. L’unico in cui il tempo non concede appello.

A Londra il tempo sembra scorrere diverso rispetto agli tornei nel mondo, proprio per la superficie, così particolare, così uguale al tennis delle origini. Qui il tempo non si allunga, non si gestisce, non si rimanda. O lo domini, o ti travolge, perché l’erba, appunto, non mente. Non ci sono seconde possibilità: un appoggio incerto, un rimbalzo sbagliato, una valutazione in ritardo, e la partita gira. Improvvisamente, irreparabilmente. Non a caso di rimonte leggendarie su questi campi ce ne sono state poche.

In un tennis sempre più costruito sulla resistenza e sull’elasticità del tempo — scambi prolungati, rincorse, colpi recuperati anche da fondo campo, partite infinite che non si chiudono — Wimbledon impone una logica diversa. Più antica e più brutale: quella dell’istante. L’erba chiede sintesi, rapidità, precisione assoluta. Premia chi gioca in avanti, chi anticipa, chi aggredisce il tempo invece di aspettarlo. Chi ha bisogno di pensare è già in ritardo. Oppure chi serve molto bene, come il kazako Alexander Bublik che ad Halle oltre a vincere il torneo ha battuto Sinner in un’ora e 22 minuti proprio grazie alla sua prima di servizio e ai tanti ace fatti. E non è un caso che, per essere davvero considerato il “numero uno”, Wimbledon vada vinto. Ivan Lendl ha vinto tutto, ha dominato ovunque, ma il vuoto lasciato da Londra ha pesato più di ogni altro trofeo portato a casa. Senza Wimbledon, si è considerati sì dei campioni ma anche un po’ incompleti, non certo dei miti. McEnroe, Becker, Sampras, Agassi, Federer, Nadal, Murray, Djokovic: tutti hanno dovuto piegarsi all’erba per diventare quello che sono nell’immaginario collettivo sportivo. Così la sfida tra Carlos e Jannik — già diventata l’asse del presente — per forza di cose passa comunque e inevitabilmente da Wimbledon. L’anno scorso vinse Alcaraz, battendo Djokovic in una finale che sembrava ancora fuori scala per chiunque non fosse Novak. Ma oggi Sinner arriva da numero uno del mondo, con un tennis più maturo, più solido, più silenzioso. Lì, sull’erba, si deciderà se la vetta raggiunta in classifica può trasformarsi in eredità storica. Perché Wimbledon seleziona, distingue, legittima. È anche una questione psicologica. Più di ogni altra superficie, l’erba mette in crisi il controllo. Scivola tutto: i piedi, i colpi, la sicurezza. Non c’è ritmo, non c’è continuità. Bisogna convivere con l’imprevisto, e trasformarlo in risorsa. Chi si innervosisce, chi cerca stabilità, è perduto. Serve equilibrio mentale prima ancora che tecnico. Saper stare in piedi in un campo che ti sfugge, mantenere lucidità nel silenzio ovattato di un pubblico che non urla, ma osserva. E giudica.

E poi c’è Wimbledon, come luogo. L’estetica che impone il bianco, i Royal Box, il tè servito puntuale, le interruzioni per pioggia che sembrano rubate a un film d’epoca. Il contrasto è totale: mentre in campo si combatte a colpi di riflessi e nervi, tutto intorno regna un ordine cerimoniale. È il torneo più violento travestito da partita di gala. Il più impietoso sotto la superficie più raffinata. La tradizione è la forza ma anche il limite degli inglesi, anche se quest’anno, oltre ad offrire alle giocatrici e ai giocatori il montepremi più ricco di sempre ha in agenda alcune novità. A cominciare dall’orario delle finali, non più previsto alle 14 locali, bensì due ore più tardi (le 17 italiane), o dalla sostituzione dei giudici di linea con l’Electronic Line Calling (Elc), una tecnologia sofisticata - presente su tutti i 18 campi utilizzati nel torneo - che servirà a segnalare l’out anche nel corso dello scambio, e non solo sul servizio Insomma, ogni punto sull’erba è una questione di sopravvivenza. Ogni partita può finire prima di iniziare. È per questo che Wimbledon non perdona. Ma proprio per questo, chi lo vince viene ricordato. Più di ogni altro Slam. Perché, almeno una volta, ha saputo dominare il tempo. E il tempo, nel tennis, è tutto.

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