giovedì 21 febbraio 2019
Tra gli azzurri più forti di sempre, il fuoriclasse pugliese da quasi 10 anni dirige una società con 200 ragazzi: «Mi sento un padre per loro. Il mio scopo è farli cresce con solidi principi»
Walter Magnifico (realmagnifico.com)

Walter Magnifico (realmagnifico.com)

COMMENTA E CONDIVIDI

Fede, famiglia e basket. È da sempre il tris vincente del “Magnifico” della nostra pallacanestro. Anche oggi che a 57 anni mette il suo talento e la sua passione al servizio di 200 ragazzi. Perché ci sono campioni e campioni. Quelli che lasciano il segno e da cui ci sarà sempre da imparare sono prima di tutto grandi uomini. A questa categoria appartiene Walter Magnifico, il principe di San Severo (Foggia), 209 centimetri di classe ed eleganza, un pezzo di storia della pallacanestro italiana. Negli anni ’80-’90 un giocatore simbolo che ha legato il suo nome soprattutto alla Scavolini Pesaro mettendo in bacheca 2 scudetti, 1 Coppa delle coppe, 2 Coppe Italia (un’altra l’ha vinta con la Virtus Bologna). Protagonista anche in azzurro, con 214 presenze e oltre 2mila punti, con l’Italia ha conquistato bronzo (1985) e argento (1991) agli Europei. Compagno di Nazionale anche di quel Meo Sacchetti, ct azzurro (e allenatore della sorprendente Cremona) che potrebbe dare all’Italia un pass Mondiale che manca dal 2006.

Coach Sacchetti ne ha combinata un’altra delle sue, vincendo la sua terza Coppa Italia con Cremona (dopo le due a Sassari).

«Non mi ha sorpreso. Stimo Meo sin da quando era giocatore. Ho condiviso con lui bei momenti in Nazionale, è il miglior coach per l’Italia e ci porterà ai Mondiali. Purtroppo non abbiamo tanti giocatori di livello internazionale. In Serie A gli stranieri sono troppi e gli italiani con un ruolo determinante pochi. Un tempo i due stranieri nelle squadre erano davvero forti. Oggi non sono superiori a tanti italiani che non trovano spazio».

Non sarà che produciamo anche pochi giocatori di qualità?

«Senz’altro. Una volta si andava in giro per le campagne a selezionare i ragazzi alti e le società investivano tanto sui vivai. Però non è solo una questione numerica: c’è scarsa fiducia nei pochi italiani di valore. Due punti fermi della Nazionale come Datome e Melli sono stati costretti ad emigrare. E talenti come Pascolo e Abass a Milano hanno avuto poco spazio. Adesso Della Valle… Ma perché non li fanno giocare?»

Sacchetti chiede sempre il massimo dai suoi, anche più disciplina.

«Come dargli torto. Oggi i ragazzi sono distratti da mille cose, noi avevamo solo il basket. Io però sono stato fortunato: sono cresciuto con professionisti fantastici: Meneghin, Marzorati… E riferimenti come Rubini e Gamba che per me è stato un papà anche perché io il mio l’ho perso a 16 anni».

Il suo talento fu notato molto presto.

«Il primo giorno di scuola media. Merito del custode della palestra che era anche allenatore della squadra di basket. Ero già molto alto e a 14 anni avrei raggiunto i 2 metri. L’anno successivo ero in Nazionale giovanile. Mio padre non mi disse mai nulla e fu la mia fortuna vedendo la foga con cui i genitori di oggi vogliono i figli campioni. A me papà manifestò sempre e solo il piacere di vedermi giocare. E quando le prime volte mi vedeva allampanato diceva: « Uagliò svegliati ». Oggi i genitori tendono sempre a giustificare i figli».

Una carriera luminosa, in cui immagino sia difficile fare una classifica dei successi.

«Ho giocato in una Scavolini fantastica, con due fenomeni come Daye e Cook. Ma da brividi sono stati i Giochi di Los Angeles del 1984. Anche se poi arrivammo quinti perdendo una semifinale balorda col Canada. Con tanti rimpianti visto che venivamo da argento olimpico e oro europeo. Le Olimpiadi però furono vinte dagli Usa che giocavano ancora con soli universitari ma con un certo Michael Jordan in squadra...»

Lei è stato uno dei primi italiani a finire nel mirino di una squadra Nba.

«Sì nel 1986 fui selezionato per un camp estivo degli Atlanta Hawks. Fu un grande onore ma tentennai perché la mia prima figlia avrebbe compiuto un anno ed era già qualche mese che stavo fuori casa. Fu mia moglie a spingermi ad accettare...»

Oggi dirige una società, la Real Magnifico, per far scoprire ai ragazzi la bellezza di questo sport.

«L’anno prossimo festeggeremo dieci anni di attività. Siamo presenti a Pesaro, Fano e Montelabbate e seguiamo circa 200 ragazzi, dai 5 ai 20 anni, con uno staff di 8 allenatori. Mi piace stare sul campo e prendermi cura dell’organizzazione societaria. Ma l’obiettivo è chiaro: non vogliamo certo campioni a tutti i costi. A me interessa formare i ragazzi a una vita da atleti, che poi arrivino in A o in serie D è lo stesso: importante è valorizzare i loro talenti. Lavoriamo dodici mesi all’anno, ma sono contento anche perché riesco a godermi casa mia».

La famiglia è da sempre in cima ai suoi pensieri.

«Ah certo. I momenti più belli della mia vita sono legati alla mia famiglia. Ho conosciuto mia moglie tre mesi dopo essere arrivato a Pesaro e sempre insieme abbiamo vissuto gioie incredibili, dal matrimonio alla nascita delle nostre tre figlie… E da sette mesi anche la prima nipote. Da nonno sto rivivendo le stesse emozioni di papà. Sono molto felice, devo tanto anche ai miei genitori da cui ho avuto un grande dono.»

Quale?

«La fede. Sono cresciuto in una famiglia cattolica, molto credente. La parrocchia mi ha dato tanto. Mi sveglio e mi addormento con la preghiera perché mi sono sempre affidato al Signore, non solo per una partita, ma anche per le scelte della vita quotidiana. In Gesù ho trovato una grande forza soprattutto dopo la morte di mio padre.»

Di recente ha denunciato un caso di razzismo contro un suo giocatore di colore.

«Ci sono episodi davanti a cui non riesco a star zitto. Lo sport è un veicolo educativo e organizzo incontri anche con i genitori: bisogna far capire ai ragazzi che quando si sbaglia, bisogna assumersene la responsabilità. Io ai giovani ci tengo molto e anche quando li incontro dopo anni mi brillano gli occhi. Mi sento come un papà per loro.»

La chiamavano anche il “leone di San Severo”. Chi è stato Walter Magnifico per chi non l’ha vista giocare?

«Fuori un tipo tranquillo, ma in campo volevo farmi valere. Il basket è stato decisivo per superare la timidezza. E ho fatto mia una frase che ripeteva un maestro come coach Bianchini: “Se non spieghi le tue ali, non saprai mai quanto alto potrai volare”».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: