sabato 15 febbraio 2014
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Anche Milano ha avuto il suo «triangolo rosso», letteralmente parlando. Era un distintivo di stoffa scarlatta con la scritta «Brigata d’assalto Volante Rossa – Martiri Partigiani», che negli anni del secondo dopoguerra metteva paura a chiunque lo vedesse, cucito sulla manica dei giubbotti di una settantina di risoluti operai.Un triangolo rosso che, proprio come quello geografico che nello stesso periodo caratterizzò le zone dell’Emilia Romagna, ha significato tanta violenza e anche morti; pur se probabilmente meno di quelli che gli furono addebitati. Perché senza dubbio c’è molto del mito (positivo o negativo, ça depend dalle opposte ideologie...) nella storia di quel gruppo di ex partigiani milanesi, pronti ad accorrere ovunque la «lotta proletaria» chiamasse durante le epoche tempestose della ricostruzione: la «Volante rossa», infatti, faceva tremare i nemici ed esultare i compagni e fu perciò inevitabile che tra le conseguenze delle sue azioni paramilitari venissero iscritti omicidi in realtà provocati da altri e per ben altre ragioni, per più oscure vendette post-belliche. Tuttavia anche il tentativo di ripercorrerne la storia minimizzandone le responsabilità appare poco convincente.È quanto avviene con La guerra non era finita di Francesco Trento, ora in uscita per Laterza (pp. 208, euro 18): un saggio in cui sono raccolte le vicende dei «partigiani della Volante Rossa», attivi tra il 1945 e il 1949 a partire dal quartiere di Lambrate e sotto la guida assoluta di Giulio Paggio alias «Tenente Alvaro». In effetti Trento – che riutilizza e strizza in minor numero di pagine una sua tesi accademica – dà troppo spesso l’impressione di ridimensionare gli aspetti di giustizialismo sommario nelle «imprese» della celebre pattuglia armata, forse trascinato dal peso soggettivo delle pur preziose testimonianze orali da lui personalmente raccolte qualche lustro fa tra i reduci della «Volante» stessa.«Come molti a quel tempo, i militanti della Volante Rossa guardano alla Resistenza come a un cammino rivoluzionario interrotto. Temono che le conquiste raggiunte siano in pericolo, che si corra il rischio di essere schiacciati dalla reazione appoggiata dagli Alleati, come in Grecia. Si armano per questo: per difendersi. Ma anche per contrattaccare, per continuare il cammino rivoluzionario, non appena ve ne saranno le condizioni»... L’enfasi non è buona consigliera della storia, anche se indubbiamente – in quel clima rovente e incerto – non mancavano le ragioni per reagire ai moti (anche violenti) di resurrezione neofascista, o per ribellarsi al gattopardismo di chi voleva restare a galla nonostante i compromessi col passato regime: «Di fronte a una magistratura che rilascia i criminali fascisti – argomenta Trento – si fa strada, nei membri della Volante, la convinzione di essere chiamati a fare giustizia. E man mano che i fascisti rientrano dai campi di concentramento alleati, o escono dai loro nascondigli, gli uomini di Paggio iniziano a intervenire».Pestaggi, attentati, distruzione di sedi neofasciste e picchetti nelle fabbriche occupate, rappresaglie, «avvertimenti», epurazioni, ferimenti e morti; anche morti. La «Volante rossa», sul camion residuato bellico acquistato all’asta, si costruisce presto una fama d’inflessibilità che la rende ricercata da chiunque desideri una sua «giustizia» e senza aspettare il processo. Nata sotto il paravento di una sorta di «dopolavoro» nella Casa del Popolo di Lambrate, composta anche di giovanissimi, almeno fino al 1946 la «Volante» (50, forse 70 militanti) gira usando targhe dell’esercito e gode di potenti connivenze comuniste nelle forze di polizia, agendo dunque con la sicurezza di una quasi impunità. Il resoconto dei protagonisti stessi è eloquente: «Andavamo a prendere l’individuo, lo portavamo dalle parti del Campo Giuriati, perché allora lì era tutto prato, e la mattina passava l’obitorio a ritirarlo».Durante gli scioperi operai di Milano e dell’hinterland gli uomini del «tenente Alvaro» funzionano invece come comodo «servizio d’ordine» agli ordini del Pci. Per il quale però non tardano a diventare una presenza ingombrante: nel 1948 infatti il partito tenta di inquadrarli, usandoli dapprima come scorta al VI Congresso (che si tiene appunto a Milano) e poi quali attivisti durante la campagna elettorale del 18 aprile seguente.Ma i brigatisti non sono soddisfatti, loro preferiscono «menar le mani». E lo sono ancor meno quando – dopo la sconfitta alle urne e dopo il fallito attentato a Togliatti il 14 luglio del medesimo anno – il Pci (consigliato in tal senso anche dall’Urss) decide di restare nei binari democratici ed evitare la rivolta armata; ebbene, quella volta la Volante viene fermata praticamente sulla soglia della più importante caserma milanese dei carabinieri, che si apprestava ad attaccare con tanto di panzerfaust: «Se (l’ordine) arrivava 5 minuti dopo, Milano era un fuoco solo»...«Contro il nemico che vuole eliminarci/ Contro i soprusi di tutta la reazione – recitava del resto una strofetta dell’inno della formazione milanese – Siam sempre pronti per qualunque azione! Per ricacciar nel fango tutti i traditor». Ormai però è giunto il tempo del disarmo; i militanti si sono resi conto «che la rivoluzione non era possibile, mentre noi si era pensato di essere alla vigilia della presa del potere da parte della classe operaia». E forse i reduci della «Volante» sarebbero rientrati nell’ombra di esistenze più o meno normali se, nel gennaio 1949, il colpo di coda di due maldestri omicidi di presunti fascisti non avesse condotto all’arresto di una trentina di loro – che saranno processati e condannati – e alla fuga in Cecoslovacchia di altri esponenti di vertice, compreso Paggio. Il «Tenente Alvaro» potrà tornare in Italia solo nel 1979, dopo essere stato amnistiato, ma preferirà continuare a vivere a Praga, dove è morto nel 2008. Sarebbe stato quanto mai interessante conoscere la sua versione della storia della «Volante»; ovviamente non l’ha mai raccontata.
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