sabato 13 novembre 2021
La scrittrice agli Eventi letterari Monte Verità: «Nella narrativa oggi l’introspezione è così artefatta da escludere un rapporto autentico con gli altri. L’ascolto è decisivo nelle relazioni»
La scrittrice Rachel Cusk giovedì sera a Lugano

La scrittrice Rachel Cusk giovedì sera a Lugano - Eventi letterari Monte Verità

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Rachel Cusk ha innovato la forma del romanzo, semplicemente. L’avverbio è tutt’altro che superfluo, perché l’immediatezza della prosa e la linearità del racconto sono le caratteristiche che più colpiscono in questa scrittrice cosmopolita, cittadina britannica nata in Canada nel 1967 e di recente trasferitasi dal Regno Unito a Parigi in reazione alla Brexit («La decisione migliore che abbia mai preso», dice con orgoglio). Il suo nome è oggi legato alla trilogia composta da Resoconto, Transiti e Onori, usciti con cadenza regolare tra il 2014 e il 2018 e disponibili da Einaudi nella traduzione di Anna Nadotti. Una narrazione che assume il punto di vista di Faye, una donna che somiglia molto a Cusk senza tuttavia identificarsi con lei: entrambe sono scrittrici, entrambe madri, entrambe si pongono davanti alla realtà con un rigore assoluto, che assume l’aspetto esteriore della semplicità espressiva, ma che è il risultato di un percorso molto impegnativo. Alla singolare, affascinante struttura della trilogia hanno contribuito alcuni libri dichiaratamente autobiografici, primo fra tutti Il lavoro di una vita del 2001, incentrato sull’esperienza della maternità. Anche questo titolo è in catalogo da Einaudi, che al momento sta preparando l’edizione italiana del più recente romanzo di Cusk, Second Place. Siamo fuori dalla trilogia, ma il clima è immutato: osservazione, ascolto e, in filigrana, un filo di partecipe ironia. Giovedì sera Rachel Cusk ha inaugurato al PalaCinema di Locarno la nona edizione degli Eventi letterari Monte Verità, in svolgimento ad Ascona fino a domani sotto la direzione artistica di Paolo Di Stefano (per informazioni www.eventiletterari.swiss). La conversazione si è incentrata sul tema scelto quest’anno dal festival, “Un’altra vita”, nel quale le suggestioni del centenario dantesco si intrecciano con le cronache della pandemia. «Che è stata, se non altro, l’occasione per riscoprire la qualità misteriosa attraverso la quale la lettura di un romanzo ci consente di trascendere difficoltà e limitazioni, restituendoci l’esperienza della realtà anche quando questa sembra esserci negata – spiega la scrittrice –. La scrittura, invece, procede in modo differente. È il tentativo di ricomporre in unità una serie di frammenti. Da una parte asseconda l’istinto narrativo tipico degli esseri umani, dall’altra è un procedimento niente affatto naturale, che richiede una concentrazione continua da parte di chi scrive. Si tratta di un lavoro molto solitario, che però trova sostegno nella memoria di quanto si è ricevuto attraverso la lettura». La trilogia di Outline, come viene solitamente chiamata (il riferimento è al titolo originale del primo libro) si basa sul desiderio di comprendere in che modo la letteratura possa essere, ancora oggi, uno strumento di conoscenza. «Volevo scrivere un romanzo nel quale nessuna informazione risultasse falsata – afferma Cusk –. La mia sensazione è che nella narrativa contemporanea ci sia un interesse ossessivo per il tema dell’identità individuale, mediante un’introspezione talmente artefatta da escludere un rapporto autentico con quanti ci circondano. Ho provato a fare a meno di ogni altro espediente per riprodurre sulla pagina il processo mediante il quale, incontrandosi e parlando tra di loro, le persone ampliano le proprie conoscenze. Ho dato molto spazio all’ascolto, che anche nella vita quotidiana è decisivo per la profondità delle relazioni. Al lettore di questi libri, in fondo, viene richiesto di ascoltare pazientemente, così da diventare a sua volta l’autore di una storia composta da tante storie diverse. In termini tecnici, mi sono lasciata guidare dal modo in cui la fotografia permette alla realtà di rivelare sé stessa. Mi piacerebbe che, grazie ai miei libri, si verificasse lo stesso tipo di condivisione che sperimentiamo davanti all’immagine di un grande fotografo: quello che si vede è uguale per tutti e, nello stesso tempo, richiama ciascuno alla responsabilità dell’interpretazione». La rinegoziazione dell’esperienza non può comportare una ridefinizione del linguaggio. «Spesso nutriamo la convinzione che le parole debbano essere usate come armi per argomentare e protestare, per sostenere i valori nei quali crediamo e per combattere le ingiustizie – ammette Cusk –. Ma la prospettiva cambia radicalmente nel momento in cui iniziamo a interrogarci sulla volontà o, meglio, sulla maniera in cui la volontà plasma la nostra personalità. La dimensione polemica perde interesse e a prevalere è una semplicità intessuta di silenzio e di contemplazione. Quello che ne deriva è un potere altrimenti sconosciuto, che non va confuso con la passività. Essere semplici significa porsi davanti alla realtà in modo quieto, disarmato e fiducioso. Ma questo richiede una forte disciplina interiore, anche sul piano della scrittura». La maternità, come già ricordato, ha un ruolo molto rilevante nella vita e nell’opera di Rachel Cusk. «In una prima fase, prendermi cura della mie figlie mi ha portato a interrompere la scrittura – ammette –. Mi pareva che non ci fossero le condizioni per affrontare simultaneamente i due compiti. Mi sono come svuotata di quello che credevo di aver appreso, ritrovandomi in una situazione molto lontana dalla stabilità consentita dalla letteratura, che da ultimo si manifesta in una sorta di consenso tra opinioni discordanti. In questo, però, non c’è stata una perdita. La maternità apre a una consapevolezza più ampia e per molti aspetti imprevista. Succede da sempre e succederà sempre, è una dinamica universale e perenne che però, per qualche strano motivo, sembra non lasciare traccia. Tutte le madri vivono quello che ho vissuto con le mie figlie, ma è come se non sentissero il bisogno di parlarne. Credo che sia un atteggiamento comprensibile, come quello di chi ha vissuto un’esperienza straordinaria e, sul momento, non trova le parole per descriverla. Nel Lavoro di una vita non ho fatto altro che dare voce a emozioni e pensieri di cui altrimenti io stessa mi sarei dimenticata. L’ho fatto nel modo più diretto possibile. E con tutta la semplicità di cui sono stata capace».

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