giovedì 27 agosto 2020
Parla il “Jimmy Ballando” di Paolo Conte, il musicista che ha accompagnato tutta la Scuola bolognese: domani è in concerto allo Sponz Fest di Capossela
Jimmy Villotti

Jimmy Villotti - Archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

«Jimmy ballando, ballando, con due cinesi io e te...». Canta Paolo Conte, in Jimmy ballando, brano storico dell’avvocato-chansonnier di Asti, dedicato al suo amico e mentore decennale alla chitarra, il principe degli “Sbudellati”, Jimmy Villotti. Una vita in tournée, tra Stoccate, ferite e resoconti, tanto per citare uno dei suoi «librucoli» (dice lui). Enfant prodige bolognese (al secolo scorso, classe 1944, nato Marco Villotti), sbocciato sotto le orecchie acustiche ed attentissime al talent scout di sua maestà il clarinetto jazz, Hengel Gualdi. «

Clarinettista stellare, come lui solo Tony Scott. Hengel, un maestro per tanti di noi allora giovani musicisti di Bologna, specie per me, che da ragazzino tiravo giù sullo spartito delle cose assurde, complicatissime da eseguire, e Gualdi lì, sempre pronto ad ascoltare e consigliare. Un’arte che praticano più in pochi ormai, “il consigliare”». Consigli utili per la crescita precoce di un virtuoso della chitarra che si aggirava per quella Bologna magica, misteriosa e sotterranea degli anni ’60-70.

«Quella che ha raccontato ne Gli sbudellati. Tra la via Emilia e il jazz (Sperling& Kupfer): «Gli sbudellati chi sono? Personaggi equivoci, perennemente notturni, ma carichi di umanità. Però adesso se giri per i vicoli e le piazze di Bologna non li trovi più neppure con il lanternino». Si illumina d’amarcord Jimmy che prepara il concerto di domani pomeriggio a Calitri, allo “Sponz Fest” di Vinicio Capossela che considera un figlioccio. «Chiamati dal vecchio Renzo Fantini, io e il gruppo di Paolo Conte registrammo il suo disco d’esordio, All’una e trentacinque. Furono notti insonni, fino all’alba con Vinicio che era teso, dentro covava la paura di non farcela. Allora io rimanevo sveglio a rincuorarlo: “Dai che hai talento, stai tranquillo”.

Oggi quando gli ricordo di quelle notti di trent’anni fa gli dico: hai visto che quel “geniaccio” che hai dentro alla fine è venuto fuori... e ti è andata pure bene». Il sesto senso di Villotti, il musicista dalle mille idee in testa dove lui da sempre «ci ha il fez». Da lì, dalla mente e dalla sua chitarra eclettica e geniale, dal 1963, anno in cui inizia a suonare al piano e alla chitarra con i Meteors, sgorgano gli accordi: pop, jazz e rock. Con Fio Zanotti all’inizio dei ’70 fondò persino una band progressive, i Jimmy M.E.C. «Il mio eclettismo è stato un punto di forza, ma con gli anni, quello di non essermi mai specializzato in nulla è diventato anche il limite, il cruccio più grande che mi porto dietro».

Non la pensano così tutti gli epigoni della nobile “Scuola bolognese” che ha accompagnato, sopra e fuori dal palco.

Vent’anni al fianco dei miei amati cantautori. Quelli di Bologna certo, ma anche Claudio Lolli e quella creatura raffinata e sensibile di Sergio Endrigo. Ognuno di loro mi ha dato tantissimo. Il mio è stato un “mercenariato d’alto bordo” in cui ho sperimentato con la musica e mi sono arricchito con delle amicizie di lungo corso che proseguono ancora oggi.

Francesco Guccini la chiama il suo «rokero» e ha detto: «Villotti è un “genio” perché è l’unico al mondo che riesce ad accavallare le gambe appoggiando tutti e due i piedi per terra».

Ah, Francesco – sorride divertito – . Lui è un vero genio, un amico fraterno Francesco, compagno di tante serate e di concerti indimenticabili. Così come Gianni Morandi per il quale ho scritto Anna. Ho suonato due anni con Lucio Dalla. Non riconosceva una nota, ma Lucio possedeva un modo tutto suo di interpretare, una musicalità innata che a riascoltarlo oggi lo rende davvero unico.

Come unico è stato il suo sodalizio con Paolo Conte...

Undici splendidi anni trascorsi in studio e in tour. Paolo Conte è un artista di altissima levatura, ci sono teatri e luoghi nel mondo dove l’ho visto adorare dal pubblico, quasi fosse il papa. Gli sarò sempre grato per avermi donato Jimmy ballando. Quel brano mi ha fatto ottenere più consensi che tutti i miliardi di note che ho suonato in più di cinquant’anni di carriera. Per sdebitarmi, da tempo faccio serate di “trattazione” della sua discografia. La poetica di Conte va scandagliata, analizzata e se possibile trasmessa ai giovani d’oggi che ascoltano solo il rap o la trap. Ragazzi, date retta a Jimmy: c’è molto di più nell’universo della musica...

C’è il jazz per esempio, che da tempo è assurto a sua “ultima” frontiera.

Il jazz per me è un salto nel buio dove o salgo fino alle stelle o precipito nella pazzia per le castronerie che commetto. Non è soltanto musica, è adrenalina pura, soprattutto adesso che suono con jazzisti veri che mi mettono alla prova in un confronto che è vitale, specie per un musicista come me che ha sempre bisogno di ricalibrare stimoli e fantasie.

Fantasie da jazzista di razza.

Piano con le definizioni. Io suono “anche il jazz”, ma ho troppo rispetto per definirmi un jazzista. Perché jazzista è colui che vive e pensa solo in funzione di quella musica, e per spirito poetico e appartenenza politica è un genere che spetta solo a certi talenti, prevalentemente di colore, del jazz americano.

Vuol dire che non ha mai suonato con geni del jazz italiano?

No, anzi ci ho suonato e li ho conosciuti a fondo. Jazzisti al passo con gli americani da noi sono stati due sassofonisti incredibili, entrambi morti giovani: Massimo Urbani e Larry Nocella. Franco D’Andrea sembra un impiegato del catasto, ma il suo piano ha un timbro così spontaneo che lo rende originalissimo. E poi ce ne sono altri: Andrea Pozza, Paolo Birro, Massimo Chiarella, Aldo Zunino...

Ma dei musicisti della tribù degli “sbudellati” chi c’è ancora?

Resiste Carlo Atti, il più sbudellato di tutti – sorride –. Gli altri? Qualcuno non c’è più, qualcuno si è perso, qualcuno ha fatto i soldi e ha cambiato strada. Del resto, è così che va la vita...

E della vita e le opere del predicatore Davide Lazzaretti cosa ha scoperto?

Anni fa ero rimasto talmente colpito dalla sua figura che sono salito sull’Amiata, ad Arcidosso. Sul Monte Labro conobbi alcuni membri della comunità giurisdavidica, suonai lì per due volte e ho registrato un disco ispirato proprio alle pagine del mio libro su Lazzaretti, Va’ con Dio( Aliberti). Quello è stato un periodo in cui ho visitato eremi, sono entrato all’Avellana, a Monte Paolo e Monte Giove. Parlavo con i monaci sollecitato da una ricerca spirituale che adesso si è affievolita, così come la creatività. Il coronavirus l’ha congelata: in questo tempo sospeso l’unica certezza che ho è che siamo nelle mani di Dio.

Musica e letteratura nel suo percorso artistico vanno sempre di pari passo.

Prima di tutto amo leggere le opere degli altri, specie i saggi, poi c’è la mia scrittura. Il mio ultimo libro Onyricana (Calamaro) è bellissimo... perché ha la copertina disegnata da Paolo Conte. Un altro dono di Paolo, che lo ha letto e mi fa: «Jimmy, ma questo libro è fortissimo!». Il suo giudizio per me vale quanto un milione di copie vendute. Lì dentro mi sono messo completamente a nudo e ho svelato i miei “quattro sogni”.

C’è un quinto sogno fuori pagina?

Incontrare Davide Lazzaretti vestito con la sua tunica rossa... Il sesto, tornare alla Palazzina Liberty dei Giardini Margherita e ricominciare daccapo questo viaggio, magari anche solo con quei tre accordi striminziti che sapevamo suonare allora.

Sembra una scena nostalgica, bolognese, da film di Pupi Avati.

No, non amo i nostalgici. Io, anzi, giro subito pagina e vado avanti. «Senza malinconie, con il pugnale tra i denti... e le bombe in mano», amava ripetere il mio amico Edmondo Berselli. Ecco, l’ultimo sogno sarebbe tornare a parlare con Berselli. Una settimana prima di morire mi telefonò e mi disse: «Sai Jimmy, più di tutto mi dispiace solo di una cosa: quest’anno avevo preso lezioni di piano e adesso mi tocca rinunciare...». Mi manca tanto l’intelligenza e la scrittura di Edmondo.

Lasciamoci con un accordo di speranza.

Il mio amico musicista e arrangiatore Mauro Malavasi mi ricorda spesso: “Jimmy, quando sei in crisi fai delle scale ascendenti in fa diesis... che passa tutto”. È vero, la musica ti mette di fronte a dei problemi da risolvere, così ti aiuta ad uscire dal male di vivere. Un’altra pratica che consiglio, soprattutto ai giovani: soffermatevi su una farfalla, spegnete il telefonino e guardate un albero in fiore. Allora sì, che sentirete una gran musica.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: