venerdì 28 aprile 2017
Il pilota canadese nei ricordi del figlioJacques e negli scatti fotografici di Ercole Colombo
Gilles Villeneuve con il figlio Jacques (Ercole Colombo)

Gilles Villeneuve con il figlio Jacques (Ercole Colombo)

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«Una mostra celebrativa a 35 dalla morte di mio padre? Ne sono felice, ma non è certo una sorpresa...». Jacques Villeneuve, classe 1971, ex pilota di Formula 1 e campione del mondo esattamente vent’anni fa, nel 1997, quando suo padre Gilles Villeneuve, leggenda del Circus, volò via per sempre – a 32 anni – in seguito al tragico impatto a 227 km/h (causato da un contatto con la March di Jochen Mass) durante le qualifiche per il Gran Premio del Belgio (era l’8 maggio 1982), aveva appena undici anni. Oggi Villeneuve jr è papà di quattro figli, viaggia al seguito dei Gran Premi e lavora come commentatore televisivo. Dello stupore del bambino di ieri in lui non c’è più traccia, neppure dinanzi a questa mostra celebrativa allo Spazio Oberdan di Milano che ricorda le gesta e l’umanità di papà Gilles: «Perché lo trovo naturale. Lui era riuscito a trasmettere tutto se stesso, la passione, la voglia, il non abbattersi mai, il cuore messo in tutto quello che faceva. La gente che lo ha visto correre è rimasta colpita dal suo modo di essere, ed è per questo che continua a ricordarlo. E poi era un pilota Ferrari, una squadra che amava e per la quale ha dato tutto. La gente queste cose non le dimentica».


Lei che ricordo ne ha?

«Aveva caratteristiche uniche, non parlava molto ma “diceva” tanto col suo modo di affrontare la sfida. Viveva tutto intensamente, come fosse sempre in competizione. E chi è venuto dopo, penso ai figli di quegli appassionati, sono rimasti colpiti dai racconti dei loro genitori che gli hanno parlato dei suoi spettacolari “sorpassi” in gara. I ventenni di oggi sono nati dopo che mio padre non c’era già più, eppure continuano a seguire la sua storia, sono affascinati dal suo modo di essere e questo, da figlio e da uomo di Formula 1 mi riempie di orgoglio».

Eppure a volte abbiamo avuto la sensazione che il confronto con il “mito Gilles” sia stato pesante per lei...

«Sensazione completamente sbagliata. Il problema erano alcuni giornalisti che facevano le solite domande banali: “Corri perché lo voleva tuo padre?”, “Fai il pilota perché lo ha scelto lui?”... Ecco, io stavo costruendo la mia strada, la mia personalità, non potevo confrontarmi con qualcuno che non c’era più ed era immensamente grande rispetto a me, ragazzino alle prime armi con un nome pesante. Poi ho fatto il mio percorso, sono diventato campione del mondo, cosa che a mio padre purtroppo non era riuscita, e quindi non c’era più il confronto. Gilles rimaneva il mito, io il pilota campione del mondo che nell’automobilismo stava facendo la sua strada».

Insomma, tranne qualche sgradita “considerazione giornalistica” quando le chiedevano di suo padre non era affatto contrariato?

«Mi davano fastidio le domande di certi giornalisti, invece sono sempre stato molto contento della curiosità dei tifosi, perché amavano e amano ancora Gilles. Questo mi rendeva felice, come mi rende felice sapere di questa mostra e del ricordo a lui dedicato. Una volta per tutte vorrei chiarire che se rispondevo seccato alla stampa era solo perché volevo mettere un muro fra me e il ricordo di mio padre. Anche se capisco che spesso questi giornalisti erano animati dalla passione e affascinati da quello che Villeneuve aveva rappresentato per loro, umanamente e professionalmente».

Nella mostra è esposta anche una foto in cui, bambino, era nell’abitacolo della Ferrari 312 T4. Si ricorda quello scatto?

«Ho visto la foto, ci ho pensato su, ma non ricordo quando fu scattata. Ricordo invece i meccanici dell’epoca, ero la mascotte. Ricordo l’ambiente, e il calore che circondava papà. Da quando avevo cinque anni sapevo che avrei fatto il pilota di Formula 1, e che quella sarebbe stata la direzione da seguire fino in fondo... Quel momento, in cui ho deciso il mio destino, me lo ricordo bene».

Ma in quell’abitacolo della Ferrari poi c’è tornato, da pilota a Fiorano sulla pista della Ferrari, nel 2012 in occasione dei trent’anni della scomparsa di suo padre. Che impressione ha avuto?

«Un conto era stare dentro l’abitacolo da bambino, un altro guidare la sua macchina da adulto. Devo dire che, dopo aver vinto il mondiale del ’97, mi ha sorpreso scoprire che le F.1 di mio padre erano in fondo delle vetture “normali”. C’erano il cambio manuale, la frizione, il volante e basta, proprio come una vettura di serie, niente di complicato come quelle guidate da me o di quelle attuali. Non c’era l’elettronica, ma solo l’abilità di guida, contava il “manico”. Quella generazione di piloti guidava macchine estremamente pericolose, per cui la normalità di guida diventava qualcosa di superlativo rispetto al rischio in cui andavano incontro i piloti – cosa che oggi non esiste più, per fortuna. Era questo aspetto a rendere eroici i piloti dell’epoca di mio padre».

Andrà a Milano a vedere la mostra?

«Non lo so, dipende dal tempo a disposizione dai miei impegni... Sinceramente non mi piace guardare al passato, sono proiettato nel futuro. Mi fa piacere che l’abbiano fatta, sono felice se tanti tifosi andranno a vederla e a ricordare mio padre, Gilles. Ecco, per tanti una leggenda e un eroe, per me solo mio padre, uno che quando feci tardi a scuola venne a prendermi e si arrabbiò con gli insegnanti: sa, dovevamo andare a una gara...».

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