giovedì 1 febbraio 2018
Morto l’ultimo vero selezionatore azzurro. Entrato a Coverciano nel ’68, guidò l’Italia nei Mondiali del ’90
Vicini, il ct galantuomo
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Sessantotto. Un numero ricorrente nella vita di un uomo verticale come Azeglio Vicini, morto ieri alla soglia delle 85 primavere. Il 3 luglio del 1990, Napoli, stadio San Paolo al minuto 68 di Italia-Argentina, le bionde trecce di Caniggia sventolarono fatali per l’inzuccata di testa nella rete difesa dall’uomo Ragno, Walter Zenga. «Non sbagliava un’uscita dall’82», disse disperato il mio amico Snaporaz. Era il gol dell’11, quello che ci portava ai supplementari e poi ai rigori, infine alle lacrime per l’eliminazione. In un attimo tutta la gioia e la speranza collettiva di un Paese svanirono assieme agli amori che erano sbocciati (compreso il mio e di Snaporaz, sfumati poco dopo) in quelle notti magiche dell’estate di Italia ’90. Gli azzurri erano clamorosamente fuori dalla finale di un Mondiale giocato in casa e in cui avevano dimostrato di valere assai di più dell’Argentina e anche della Germania campione del mondo che poi fece piangere Maradona. Quella notte di luglio, avevamo perso tutti. E il più sconfitto era quell’uomo pacifico ed elegante dell’Azeglio. Uomo schietto come il Sangiovese della sua Romagna, calmo come il mare della materna Cesenatico. Romagnolo della “zolla” avrebbe detto Gianni Brera, di famiglia contadina: era nato nella Cascina Rossa di San Vittore, il 20 marzo 1933. Da calciatore era stata una mezzala dolce, debutto in Serie A a vent’anni nel Lanerossi Vicenza. Una figurina Panini più rara del portiere Pizzaballa: «L’avevano sbagliata, scrissero Azelio, senza la “g”», amava ricordare con animo gentile e sdrammatizzante. Quel nome originale era stato un omaggio del padre al marchese Massimo D’Azeglio.

Forse l’unica sbavatura («poi corretta») nella biografia di un Galantuomo di quelli con la “G” maiuscola, tipo Giacinto “Magno” Facchetti, che stimava al pari di Gigi Riva. «In quella mia Nazionale del ’90 se avessi avuto Gigi Riva e Marco Tardelli non avremmo mai perso contro l’Argentina... – disse Vicini – Anche se avessimo giocato la semifinale all’Olimpico credo che avremmo vinto noi». Piccoli rimpianti sportivi scritti a macchina e dettati al figlio Gianluca (gli altri figli che ora lo piangono sono Manlio e Ofelia detta “Lia”) nella biografia Una vita in azzurro (Goal-Book) uscita di recente per la gioia della moglie Ines Crosara. Ines, la compagna di una vita, dal 1955: la «Commissaria» di casa Vicini e anche la prima collaboratrice tecnica dell’Azeglio. «Nei pomeriggi di sole li trovo lì, sul balcone della casa che si affaccia sul mare di Cesenatico... Papà intento a curare i gerani e gli oleandri, mamma rimane seduta al tavolino impegnata a riassumergli i quotidiani sportivi in una sorta di rassegna stampa personalizzata», raccontava con tenerezza filiale Gianluca l’ultima estate di suo papà Azeglio. Gianluca è nato una domenica del 1967: il campionato era fermo, ma papà Azeglio, allora allenatore del Brescia, era in trasferta per una amichevole in Svizzera. «Ines era in ospedale da sola... Me lo rinfaccia ancora», diceva bonariamente pentito Vicini. Un fi- glio nato alla vigilia di quel Sessantotto in cui la sua rivoluzione la fece entrando in “Casa Italia” come collaboratore di Ferruccio Valcareggi e in qualità di responsabile della Nazionale Under 23. Quest’anno avrebbe festeggiato le nozze d’oro con Coverciano. La sua seconda famiglia quella azzurra, in cui trattava tutti alla stessa maniera, con un occhio di riguardo per quelle che Totonno Juliano a Napoli definiva le “basse forze”. Quindi massima fiducia e amicizia sincera, ricambiata, «con Alvaro il magazziniere, Sandro il massaggiatore, Mario il cameriere, il cuoco che mi viziava e la guardarobiera, la signora Angiolina».

Azeglio fratello maggiore di tanti nello staff azzurro e il padre amorevole dei giovani, specie quelli usciti dalla straordinaria nidiata di talenti della sua ultima Under 21: Zenga, Vialli, Donadoni, Giannini, Paolo Maldini, Roberto Mancini...». Il “Mancio” allievo devoto di Vicini al punto di autoconvocarsi in Nazionale dopo che la Samp aveva comunicato al ct che era indisponibile per infortunio. «Eppure quella sera Roberto si presentò in ritiro, dicendomi che se volevo lui era disponibile. È stato l’unico caso di con- vocazione postuma», ricordava il ct. Però a causa del figlioccio Mancini, nel 2001 Vicini si dimise da presidente dell’Assoallenatori, quando la Fiorentina aveva assunto l’ex fantasista doriano come allenatore nonostante l’anno prima era tesserato nello staff tecnico della Lazio e non fosse abilitato come tecnico di prima categoria. «Mi è dispiaciuto, perché erano coinvolti Petrucci e Mancini ai quali ero legato dai tempi della Nazionale, ma le regole sono regole... ». In un Paese e in un Palazzo del pallone dove da sempre impera l’irregolarità, il primo comandamento dell’Azeglio è stato il rispetto delle regole e quindi dei ruoli. Cose di cui andare fiero, come la capacità di scovare in anticipo il talento. «Stagione 1971-1972. Avevo notato un ragazzo del 1954, alto dai capelli lunghi che si muoveva con grande eleganza. Veniva dall’Asti Ma.Co.Bi, quarta serie piemontese».

Quel ragazzo era Giancarlo Antognoni che di colpo, grazie a Vicini, si ritrovò dalla quarta serie all’Under 21. Intuizioni di chi aveva appreso a pieno la lezione alla scuola federale di Artemio Franchi che nel 1966 dopo la grande débâcle della “Corea azzurra” profetizzava in anticipo sui tempi. «La nuova politica della Figc dopo la “Corea” – ricordava Vicini – era costruire una struttura destinata a durare nel tempo e incentrata sulla Nazionale maggiore, con cui gli allenatori delle giovanili collaboravano acquisendo quell’esperienza necessaria per poter diventare un giorno i nuovi ct». Parola dell’ultimo vero selezionatore del nostro calcio. Dopo Vicini, eccetto Cesare Maldini, solo allenatori di club alla guida della Nazionale: Sacchi, Zoff, Trapattoni, Donadoni, Lippi, Prandelli, Ventura. Tre dei quattro titoli mondiali conquistati dal calcio azzurro portano la firma dei nostri massimi selezionatori: il tenente degli alpini Vittorio Pozzo (1934-1938) e il “Vecio” Enzo Bearzot (1982). Il quarto lo ha vinto Lippi (2006), ma, con sedici anni di anticipo, avrebbe dovuto essere quello dell’Azeglio che con la sua Nazionale uscì di scena da imbattuto.

Nella sesta vittoria azzurra (contro gli inglesi) a Italia ’90 fu sancita anche dal 6° gol della sua “trovata mondiale” Totò Schillaci che chiuse da capocannoniere del torneo. Numeri irripetibili che fruttarono solo un bronzo. Una medaglia che Vicini ha donato al Museo del Calcio di Coverciano e ogni volta che entrando guardava la gigantografia della sua squadra non poteva che sospirare con orgoglio: «Quello era un gruppo d’oro per l’attaccamento alla maglia». A quei ragazzi aveva trasmesso la passione per il calcio. «Ormai nella mia carta d’identità sta scritto pensionato... Ma una passione in pensione non va mai», ha dettato a suo figlio Alberto prima di andarsene per sempre. L’Azeglio, aveva un ultimo obiettivo da centrare prima di andare via: «Essere ricordato come una brava persona». Se ci fosse stato un Mondiale per le brave persone, specie per quelle passate in questo strano mondo del calcio, Vicini l’avrebbe vinto di sicuro. Non è una notte per niente magica questa (specie per il calcio italiano), ma passerà; il ricordo del Galantuomo Azeglio invece, resterà, per sempre.

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