Uno scatto di scena del regista ferrarese Michelangelo Antonioni (1912-2007) mentre sta girando uno dei suoi film - -
Arrivare allo Spazio Antonioni di Ferrara è stato un viaggio, lunare, a ritroso nel tempo. Quello del ragazzino che in sella a uno scooter traversava un mare di uliveti umbri solo per arrivare a vedere, da fuori, il giardino della villa del “Grande Regista”. Così, la gente del contado di Bovara, una frazione adagiata sotto al borgo incantato di Trevi, chiamava Michelangelo Antonioni. Crescendo, una notte d’inverno nebbiosa come questa, di trent’anni fa, il “Grande Regista” lo trovai seduto al tavolo di un’osteria fiabesca quanto il Gambero Rosso di Pinocchio, quella di Pippo, a Cannaiola, con l’oste, un “gaucho” di ritorno dopo anni trascorsi da emigrato in Argentina, che conversava amabilmente e alla pari con il “Maestro” e i suoi due illustri commensali: il regista Wim Wenders e il poeta Tonino Guerra. Davanti a un Rosso di Montefalco, scrivendo su pezzi di carta i suoi pensieri intarsiati da disegnini da pittore di montagne incantate (Antonioni era stato colpito da un ictus che l’aveva privato della parola), assieme ai due amici geniali stava preparando il penultimo atto della sua filmografia capolavoro: il film a episodi Al di là delle nuvole (1995). Con questo ricordo e con la definizione di «Pittore dello schermo» che Wenders diede al “Grande Regista”, siamo entrati nello Spazio Antonioni di Ferrara. Un luogo che avremmo voluto vedere aperto con Antonioni ancora in vita, come degno omaggio a un poeta, quanto Tonino Guerra. Un «poeta del nostro mondo che cambia», così lo ricorda Martin Scorsese. Del resto, già nel 1958 per spiegare agli allievi del Centro di Sperimentale di cinematografia come fossero nati i suoi film, Cronaca di un amore e Il Grido, Antonioni confessava: «I film per me nascono come le poesie per i poeti… Vengono in mente le parole, delle immagini, dei concetti, tutto si mescola e si arriva alla poesia: così credo avvenga anche per il film».
Poetica ancestrale di un narratore ineguagliato dell’incomunicabilità. Un esploratore instancabile degli abissi più oscuri e indefiniti dell’animo umano. Lo Spazio Antonioni non poteva che sorgere qui, nell’ex Padiglione d’Arte Contemporanea di Palazzo Massari, nella città che gli ha dato i natali, nel 1912. Ferrara, città del silenzio, quella della metafisica dechirichiana, è il luogo dell’anima che gli ha insegnato ad ascoltare i battiti del cuore della gente, i sentimenti taciuti e avvolti in quella coltre di nebbia perenne che diviene metafora del mistero dell’esistenza. «Solo un ferrarese può capire una relazione durata undici anni senza mai essere esistita», scrive il giovane Antonioni intriso di poesia, di scambi narrativi e tennistici al Circolo Tennis con il cantore dei Racconti ferraresi, l’altrettanto poetico Giorgio Bassani. E quel ragazzo, cresciuto con il pallino del cinema che studia e indaga, talento precoce come critico al quale Luchino Visconti in via epistolare chiede parere sul film che sta per girare ( La terra trema, 1948), era l’espressione migliore della borghesia illuminata della sua città. Da lì, se ne è andato presto per visitare altri mondi, portandosi sempre dietro un pezzo di Cattedrale di San Giorgio, di Castello Estense e anche quelle brume del fiume che fanno da scenografia naturale alla sua prima prova da regista, il documentario Gente del Po. Il lungo debutto del ‘43 – quanto la Lunga notte , cupa e ferrarese di Florestano Vancini – di cui Antonioni ricordava con orgoglio: «Tutto quello che ho fatto dopo, buono o cattivo che sia, parte di lì». Un ferrarese errante che raccontava comunque di aver ritrovato la sua città materna in un frammento di Praga o in un riflesso di luce di qualche villaggio sperduto e desertico degli Stati Uniti. E questo caleidoscopio emozionale si ritrova qui nello Spazio: nei suoi scritti, nei suoi libri, nei suoi disegni, nei suoi quadri, nelle sue sceneggiature vergate a penna o scritte a macchina con correzioni e cancellature a margine. Ma anche nelle fotografie di scena, nei manifesti, i premi esposti in teca, a scalare: Deserto rosso, Leone d’Oro a Venezia nel 1964; Blow-up, Palma d’oro a Cannes nel 1967; l’Oscar onorario del ’95.
E poi i libri, i dischi e il vasto epistolario intrattenuto con tutti i maggiori protagonisti storici di quel secolo scorso che ha memorizzato con i suoi occhi primorlo diali e lunari: la cinepresa. Il ritratto d’artista che esce dallo SpazioAntonioni, è quello del più esotico ed estetico dei nostri cineasti. Un gusto originale che si rintraccia anche nell’allestimento minimale e d’atmosfera: quattro sale immersive, senza pareti, ripartite su due piani che custodiscono quasi 50mila “pezzi d’autore”, progettato da Alvisi Kirimoto. Radice giapponese quella dello studio d’architettura che rimanda a un grande estimatore di Antonioni, l’altro maestro della settima arte, Akira Kirosawa, il quale davanti all’opera del regista ferrarese rimase incantato dalla capacità di arrivare «più in profondità nell’indagine dei sentimenti ». Antesignano, Michelangelo Antonioni, pioniere degli “influencer”, perché con il suo cinema di poesia ha contaminato l’arte, la fotografia, la moda, la musica. Le sue sequenze infinite (i 7 minuti della stanza di Jack Nicholson in Professione reporter) sono più psichedeliche della musica dei Pink Floyd in Zabriskie Point (1970). Una delle tre perle miliari girate negli Usa, dopo Blow-Up del 1966 – in cui nell’archivio dello Spazio Antonioni scopriamo che la sceneggiatura il regista voleva affidarla al trattamento di Ita Calvino, ma che lo scrittore, grato, declinò l’invito perché impegnato in altri lavori (stava ultimando Le cosmicomiche) – e prima di Professione reporter (1975), con cui Antonioni stregò gli americani (che lo amano e lo conosco più di noi), per sempre. In questa wunderkammerer michelangiolesca, più che un semplice spazio museale (fortemente voluto da Vittorio Sgarbi e Fondazione Ferrara Arte: ideato da Dominique Païni, in collaborazione con la compagna di una vita, Enrica Fico Antonioni) c’è davvero l’anima del “Grande Regista”, per il quale il cinema è stato un atto vitale, come racconta nei suoi scritti raccolti nel saggio autobiografico Fare un film è per me vivere (Marsilio).
Ma è stato soprattutto un atto d’amore. Un amore difficile, fin dall’esordio – il primo lungometraggio, 1950, è Cronaca di un amore – complicato e complesso, come del resto l’esistenza. Da filosofo per immagini teorizza, senza mai essere teorico, nella sua “trilogia esistenziale” o dell' “incomunicabilità“, iniziata nel ’60 con L’avventura , proseguita con La notte (1961) e conclusa da L'eclisse nel ‘62. Iconica più che mai nelle sale ferraresi appare l’eroina e musa ispiratrice della “trilogia”, Monica Vitti, che si fa opera d’arte nella locandina francese di Deserto rosso di fianco al Rosso plastica dell’amico Alberto Burri che fa bella mostra nella inestimabile collezione di Antonioni. Estasi e tormento, inquietudine e ascetismo, è parte di ciò che si respira nello Spazio Antonioni, in cui, se in questa notte nebbiosa e senza eclisse il “Grande Regista” entrasse, trovandosi al cospetto della sua mirabolante opera omnia, forse non pronuncerebbe più certe parole amare: «Tutti i miei film mi lasciano insoddisfatto. Quando li rivedo c’è sempre qualcosa che mi irrita proprio perché ricordo la difficoltà che dovevo affrontare e i fa rabbia di non aver saputo superarla al meglio».