«Il contatto con i vecchi non è disdicevole e tenere i bambini lontano da loro quando non sono più autosufficienti significa non trasmettere il senso e l’esperienza della vita a chi dovrà affrontarla. Ci renderemo conto, prima o poi, cosa può significare la rimozione dei vecchi e della loro condizione dal tessuto quotidiano »? Con questa domanda Enzo Bianchi pone, nel cuore del suo nuovo libro dedicato alla vecchiaia – La vita e i giorni (Il Mulino, pagine 138, euro 13) – la questione centrale che preme sul lettore. Dopo aver introdotto gli anni della vecchiaia attraverso la metafora delle stagioni, quindi descritto una sorta di fenomenologia delle sue manifestazioni fisiche e morali, dato una serie di citazioni dal “grande Codice” della Bibbia de senectute, Bianchi impone l’urgenza di una riflessione: quella dell’importanza della prossimità alla vecchiaia, alla finitezza, all’esperienza del limite. Rispetto a un tema che viene trattato con estrema sobrietà, specialmente in Italia, dove le pubblicazioni a esso dedicate sono pochissime – a fronte di una percentuale di popolazione di over sessantacinquenni che sfiora il quinto di quella complessiva! – o ad ardite affermazioni antropologiche d’oltralpe che postulano la scomparsa della vecchiaia (si pensi alla vecchiaia come “interluogo” di Marc Augè, in Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste), la penna di Enzo Bianchi si esprime con il caratteristico coraggio e candore e con una naturalezza persino più dolce rispetto ad altri temi da lui già trattati.
La lettura proietta una visione dell’esperienza diretta dell’autore che ne compone, ad un tempo, un duplice racconto: quello della memoria della vecchiaia degli altri, filtrata dai suoi occhi di ragazzo, e quello del suo stesso corpo che, nell’attualità, la esperisce descrivendo la realtà con uno sguardo laico, privo di ogni sorta di retorica, ma anche intento a scavare significati nuovi e profondi. L’introitus conferito alla metafora delle stagioni crea una cornice di pace e di armonia su tutte le età, compresa quella dell’autunno che viene a dare i suoi gialli dorati, i violacei, i rossi sanguigni sui pampini privati dei loro grappoli, sulle colline del Monferrato, dove l’autore è nato. Le sagome dei vecchi che tralucono dagli occhi infantili sono quelle dei nonni seduti accanto ai nipotini vicino al fuoco che si accendeva nelle case appena fatta notte e che attendeva una lunga serata in cui tutti si scaldavano insieme sia del camino, sia della compagnia delle parole e della vita comune. Benché siano concretamente poche le righe in cui viene descritta quella vecchiaia, quell’immagine antica segna la mente del lettore di straniante nostalgia e ne rivela la grande – e notata – distanza col presente in cui «i nonni sono presenza utile, ma saltuaria» e quella prossimità affatto familiare è divenuta impensabile.
Con i piedi per terra, senza alcuno sconto alle facili illusioni che vorrebbero esorcizzare i fantasmi di un “paese che non è per vecchi” – come al contrario avviene, ahimè, troppo spesso e in varie maniere – le pagine cominciano a condurre, lievemente, al futuro che vuol dire “prepararsi” a quell’esodo che è la vecchiaia, vivendola piuttosto come un «compito e una sfida», come un tempo propizio per curare la vita interiore e, per chi è credente, per imparare a sperare nell’eternità. «Speranza folle? Ma è quella che nasce dalla fede e si nutre della convinzione che qualcosa di eterno lo abbiamo vissuto nella nostra vita: l’amore». Ed è proprio su questo snodo che appare lo spunto illuminante del messaggio di questo libro: sul fatto che la vecchiaia non si vive da soli, ma «si costruisce insieme (…) ognuno di noi è chiamato ad commoriendum et ad convivendum », secondo la parola di Paolo ai Corinti ( 2Cor 7,3). Che la vecchiaia non può essere un viaggio solitario nel deserto; deve, invece, innestarsi in un ordo amoris umano e divino. Qui sta la sapienza di questo piccolo, ma grande libro. Che sì, come dice il citato García Márquez: «La morte non arriva con la vecchiaia, ma con la solitudine».
Una sapienza che affonda le sue radici nella “vecchiaia” della nostra civiltà: «Non è buono che l’essere umano sia solo» recita la Genesi biblica (2,18) e ancor qualche millennio prima di essa, uno dei racconti più antichi del mondo descriveva proprio l’imbarazzo della morte e il desiderio di sfuggire alla vecchiaia con il mito dell’eterna giovinezza (N.K.Sanders, a cura di, L’epopea di Gilgamesh). Una pianta che si chiamava: “Vecchio ringiovanisci” e che cresceva sui fondali di un mare remoto di acque di morte e che un re di nome Gilgamesh andò a cercare giungendo fino a trovarla. Ma curioso è ricordare perché lo fece: non per sé stesso, non per cancellare le rughe della sua stessa fronte e apparire più giovane, ma per amore del suo migliore amico. Vedendo il corpo tanto amato di lui iniziare a corrompersi, il re di Uruk iniziò il suo viaggio. Tutto nasce e vive soltanto per amore: la vita, i giorni, la fede e pure l’eternità. Quel rifiorire della luce – mediterranea! – che il delizioso testo del monaco di Bose ricorda come tipica invocazione di chi sta per morire. Come quella che brilla negli occhi di due vecchi che continuano ad amarsi, nonostante i tradimenti e i dolori degli anni, con tenerezza di grazia, senza età. «Ecco cosa mi è permesso di sperare e non solo a me cristiano, ma a tutti gli umani, religiosi o no: l’amore che vince la morte è un messaggio che vale la pena di vivere già qui e ora». Una stupenda conclusio.