
Il filosofo Massimo Cacciari - Ansa
Van Gogh. Per un autoritratto di Massimo Cacciari è l'ultimo libro della collana “Parola dell’arte” (Morcelliana, pagine 160, 40 illustrazioni, euro 20,00; da oggi in libreria). Si tratta di un viaggio all’interno dell’opera del pittore olandese, che viene commentata dal filosofo Massimo Cacciari. Il volume sarà presentato in anteprima al Salone internazionale del Libro di Torino il 17 maggio (Sala blu, ore 10,30). Al tema “L’arte e il disagio”, ampiamente discusso nell’intervista, è dedicata, poi, la conferenza magistrale che Cacciari terrà il 20 maggio nella rassegna “Le parole del Monastero” patrocinata dal Comune di Provaglio d’Iseo (Brescia), nel complesso dell’ex monastero cluniacense di San Pietro in Lamosa (ore 20.00).
Due opere dell’arte contemporanea, tra le molte che si potrebbero individuare, paiono emblematiche del patto siglato tra riflessione filosofica e rappresentazione pittorica: l’Angelus Novus (1920) di Paul Klee che, con l’iconico tratto a disegno minimalista, è simbolo della coscienza posta dinanzi alla catastrofe della storia; e il Campo di grano con volo di corvi (1890) di Vincent Van Gogh, che, nel trionfo dei colori, abbraccia le questioni ultime riguardanti il rapporto dell’uomo con il mondo e con Dio consegnandoci il suo testamento spirituale e artistico. Tappe simboliche del patto che il filosofo Massimo Cacciari ha stretto con l’arte in tutta la sua produzione, dove, interrogandosi sulla questione ontologica – che risponde alla domanda: “Che cos’è la realtà?” – e su quella gnoseologica – “Come si conosce?” – nei suoi scritti fondamentali – daKrisis (Feltrinelli, 1976) a Dell’Inizio (Adelphi, 1990); Della cosa ultima (2004); Labirinto filosofico (2014); Metafisica concreta (2023) – senza sosta “bordeggia” tra l’età rinascimentale e l’età moderna e contemporanea, approfondendo immagini e parole chiave di artisti dell’umanesimo – da Giotto a Dante, da Piero Della Francesca e Masaccio a Sandro Botticelli, Giovanni Bellini, Donatello, Michelangelo (a questi è dedicato il volume La passione secondo Maria, Il Mulino)- e le avanguardie, osservate in linee artistiche molto diverse, da Delacroix e Cezanne a Van Gogh, ma anche Kandinskij, Klee, Malevic, Mondrian, Duchamp, Giacometti. Due tappe anche editoriali: “Angelus Novus” è il nome della rivista da lui fondata con Cesare De Michelis nel 1964, che inaugurava nuovi studi di estetica, e figura l’Angelo – approfondita in tutta a sua opera; e ora Van Gogh, un ritorno ai suoi importanti studi giovanili, dà il titolo al volume per la prima volta interamente dedicato a un pittore, nel quale teoresi, critica d’arte e immagine trovano un connubio unico.
Professore, perché lo sguardo del filosofo e l’operare dell’artista, oltre le loro epoche, vivono di una “ideale contemporaneità”?
«È lo sguardo del serpente che accomuna la filosofia, la religione e l’arte: il vedere che incanta, arresta su un limite invalicabile, verbo aoristico per eccellenza capace di comprendere nel presente senza-termine del suo istante (Kairós) ogni forma del fare. “Il fare artistico è aoristico”, ebbe a dire Paul Klee: eterno presente, di cui è figura l’Angelo, che testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l’invisibile in quanto invisibile, non lo “tradisce”».
Perlopiù si associa la vita artistica a una via di fuga; nei suoi scritti lei mostra invece l’attaccamento dell’artista alla realtà: in cosa consiste il “disagio estetico” contemporaneo?
«Rispondo con una domanda. Straniero sulla terra non è chi ne ama le cose con tanto folle amore da intuirle sub specie aeternitatis, come se fossero eterne? L’opera d’arte non è destinata, allora, che ad esprimere tale follia: la laetitia di vedere che ogni cosa in Deo comporti per necessità l’essere straniero sulla terra? Questo è il disagio, disagio estetico come lei lo vuol chiamare, che accomuna il movimento riflessivo-immaginativo dell’arte contemporanea. Ma l’arte è anche spaesamento, estraneamento. L’arte non è fuga dalla realtà, è pròblema, in senso greco: è la cosa, la res stessa nel suo apparire e incontrarci, che ci spinge alla domanda: Perché? Da dove?».

Uno dei più celebri quadri di Van Gogh - .
I suoi scritti teoretici sono costellati di riferimenti pittorici e artistici: qual è il nesso costitutivo che lega arte e scienza, filosofia e teologia. L’arte, poi, è ancora necessaria?
«Se si comprende davvero la collocazione dell’arte nelle più grandi riflessioni filosofiche che l’Occidente abbia prodotto - e subito frainteso – cioè l’estetica di Platone e di Hegel, si dovrà dire che non della sua “morte” si tratta, quanto piuttosto della sua “necessità”. L’arte infatti rappresenta un intramontabile principio dialettico per cui la verità stessa non sarebbe: l’arte è necessaria in quanto rappresentazione del “negativo della verità”. Di qui il nesso dell’arte con la filosofia, somma potenza della riflessione sul destino di rappresentare la verità nel suo necessario trapassare, nel suo negarsi fin nell’apparenza a essa più opposta. Ecco perché sarebbe più opportuno parlare non di morte dell’arte ma del suo trapassare; in che cosa? Nell’arte intellettuale, ironica, sperimentale, destrutturante, che ha un emblema in Duchamp».
Se la verità “trapassa” i colori “trascolorano”, come lei stesso scrive: qual è il significato estetico del colore?
«Il colore è simbolico. Talvolta dissonante: in Van Gogh il colore non significa, ma si dà in disperate, dissonanti simpatie – non allude, non rimanda, è quella religio in perenne inquietudine poiché inquietum è il cuore di ogni cosa».
Già nell’impressionismo – da Delacroix a Monet - il colore è dominante; ma con quali differenze rispetto a Van Gogh?
«Van Gogh rappresenta una linea dell’arte contemporanea che si oppone a quella dell’impressionismo: mentre l’impressionismo disfa la cosa, riduce la cosa ad impressione, come dice il nome stesso, per Van Gogh è la cosa, la res, che va vista, che va sentita, che va saputa, che va valorizzata. La cosa è il nostro pane quotidiano, nel senso evangelico del termine: pane “iperousios”, che vuol dire sia quotidiano sia sovraterreno».
Se il colore diventa simbolico, come cambiano le forme nell’arte contemporanea?
«Quello che si è detto per il colore si può dire per le forme. La forma artistica diventa forma astratta, che può sembrare una contraddizione in termini ma non lo è; piuttosto è coerenza con se stessa. L’arte contemporanea può esistere solo come riflessione; ogni bellezza, ogni immediatezza, ogni armonia debbono essere negate; non c’è più la misura, non c’è più il numero. Anzi, essa ne rappresenta appunto la effettuale negazione, la “morte”. Nel ‘900 lo si coglie in modo esemplare nell’opera di Giacometti: la forma, figura tende a sparire, implode. La figura ha come la nausea a manifestarsi, e questa nausea è espressa dall’artista col cancellarne la stessa presenza».
Il disagio diventa la potenzialità dell’arte: è possibilità dell’“impossibile”, per usare una categoria da lei forgiata?
«L’artista combatte questa “necessità” di rappresentare, ma alla fine, è costretto a assecondarla (e ne ha “terrore”). Il venire meno della rappresentazione, come nell’astrattismo di Kandinsky che è anelito allo spirituale, è la testimonianza di un’arte che vuole rimanere necessaria in un mondo dominato dalla scienza. L’arte mostra come la necessità della verità consista nel suo trapassare nell’apparire, ma la dimensione del trapassare, cioè la morte che appartiene all’essenza stessa della verità, è il sapere stesso – tragico - dell’arte. Questa non è la morte dell’arte, tutt’altro: se viene meno l’arte, o se l’arte si riduce a rappresentazione superflua, viene meno il senso stesso del nostro essere che anela alla trascendenza. L’arte, il “fare” dell’arte (poiesis) è piuttosto “oltraggio”: esperienza oltre le capacità di vedere e di dire».