mercoledì 8 luglio 2015
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Girano il mondo di continuo, da un continente all’altro. Sono inseguiti, braccati e guardati a vista ma loro se le danno a gambe levate: non vogliono farsi prendere, e sono in perenne fuga. Fanno di tutto per arrivare il prima possibile, anche se il più delle volte non ci riescono. Sono i simboli di un continente in piena evoluzione e trasformazione, sono soprattutto in costante movimento. Sono il “Continente Nero” che corre per inseguire un sogno a tinte gialle sulle strade di Francia. Sono l’Africa su due ruote, che sa stare in equilibrio, che pedala veloce e si fa largo tra le maglie strette del gruppo. «Siamo orgogliosi di rappresentare un continente come l’Africa e una nazione come l’Eritrea - ci spiega Daniel Teklehaimanot, il corridore più rappresentativo dell’Africa che pedala e che sabato scorso è stato il primo a partire nella crono di Utrecht e se è per questo anche il primo ad arrivare, senza però vincere -. È vero, noi siamo un popolo in continua migrazione, in costante movimento. C’è solo una differenza tra noi e i nostri fratelli che sono costretti davvero a scappare, noi abbiamo scelto il ciclismo con il piacere di farlo, i nostri fratelli no». Fa parte di una tradizione nazionale, Daniel Teklehaimanot. Nei paesi dell’Africa orientale ricchi di altipiani, sono nati tantissimi campioni dello sport, quasi tutti nell’atletica, grazie alle loro doti innate di popolo che corre a piedi scalzi, scappando sempre da qualcosa o da qualcuno. Ora hanno imparato anche a pedalare. L’Eritrea, indipendente dal 1993, ha mantenuto una vera cultura ciclistica influenzato dall’Italia durante la colonizzazione del paese (1885-1941). In questo Tour, che cerca un padrone e che ha appena iniziato il proprio racconto, c’è una storia che ha fatto già storia. La prima squadra africana al via della Grande Boucle, con corridori africani al proprio interno. Daniel Teklehaimanot e Merhawi Kudus sono eritrei tutto tondo. Louis Meintjes, Jacques e Reinardt Janse Van Rensburg vengono dal Sud Africa e battono la stessa bandiera della loro squadra, la Mtn-Qhubeka. Il Tour de France prima lo sognavano o tutt’al più lo immaginavano soltanto. Ora lo corrono. Sono l’Africa che non scappa, ma va in fuga. Non da soli, ma sempre con qualcuno. Hanno un traguardo da raggiungere, ma non c’è mai l’ossessione della prestazione. Mtn è una società di telefonia di primo piano in Africa, Qhubeka una parola africana che significa «andiamo avanti» è anche il nome della fondazione benefica fondata nel 2005. Daniel Teklehaimanot, 26 anni, che ha mosso le sue prime pedalate al Centro Mondiale del Ciclismo di Aigle in Svizzera, è considerato a ragione un talento, un ragazzo capace di andare molto forte in salita e che potrebbe anche lottare per la maglia a “pois” dei “grimpeur”, quella degli scalatori, visto che qualche settimana fa si è aggiudicato quella del Giro del Delfinato. Ma di assoluto talento è anche il 23enne Louis Meintjes, che sempre al Delfinato in un arrivo in salita si è piazzato terzo alle spalle di Froome e Van Garderen e nel mese di marzo aveva vinto la settimana Coppi e Bartali. Il più giovane del Tour è Merhawi Kudus, che a soli 20 anni ha preso il via alla Milano-Sanremo 2014 e adesso, a 21 anni e mezzo, sta correndo la corsa a tappe più importante del mondo. Anche di lui si dice un gran bene: è di Asmara, è il più grande di 5 fratelli (4 maschi) e il suo motto è: «Io sorrido alla vita, perché la vita è stata buona con me». Sono dei giramondo e si sentono dei privilegiati. «Sono tutti carini con noi, ci vogliono bene e noi siamo felici», ci spiega Kudus. «Se abbiamo parenti in Italia? No, qualche amico a Roma. Sono profughi, ma sono aiutati dalla Caritas. L’Italia è un Paese bello e accogliente. Amate il ciclismo, e non date peso al colore della pelle". Gli facciamo presente che purtroppo non è così per tutti… «Ma alla fine, anche se brontolate, siete un popolo che vuole bene - spiega Daniel -. Io ho degli amici a Milano. Ora è tanto che non li sento, ma solo per il fatto che hanno di che mangiare e dormire, loro si sentono felici». L’ultima domanda è d’obbligo: come vedi il tuo futuro? Il suo sorriso si spalanca luminoso sulla carnagione color della notte. «Vorrei essere utile al mio popolo, alla mia gente, alla mia nazione. La bicicletta per me non è solo uno strumento di lavoro o di gioia, ma è un modo per riscattare un intero popolo. L’Eritrea è un grande Paese e io vorrei farlo conoscere sempre di più al mondo».
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