sabato 16 marzo 2019
Un libro di Level Berdzenišvili racconta la vita nelle carceri sovietiche come un momento dove l’umorismo fu per tanti uomini un punto di forza per vincere l’abbandono. Storie di vite straordinarie
1933: Detenuti al lavoro per costruire una diga del canale Mar Bianco-Mar Baltico

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Si può ridere vivendo prigionieri in un gulag? A molti potrà sembrare una bestemmia, ma è quanto accaduto negli anni dell’ultimo segretario del Pcus, Michail Gorbaciov, durante i quali parallelamente alle riforme avviate con la perestrojka i campi di lavoro forzato venivano a poco a poco smantellati. A partire dal 1985, la situazione dei detenuti divenne sempre meno dura ed era loro permesso giocare a dama e scacchi, persino a ping pong. Una storia sui generis dei gulag riservati ai prigionieri politici, il più delle volte condannati al carcere duro per agitazione e propaganda antisovietica e spediti nei campi di lavoro, è contenuta nel libro La santa tenebra di Levan Berdzenišvili, di recente tradotto in italiano dalle edizioni e/o (pagine 272, euro 18).

L’autore, che nel 1978 aveva fondato a Tbilisi il primo partito clandestino nella storia della Georgia sovietica e nell’83 era stato arrestato assieme al fratello Dato, definisce i tre anni trascorsi nel campo di Barasevo, in Mordovia, come i migliori della sua vita. «Il Kgb – egli spiega – si è dato un gran daffare per riunire in un solo posto un gruppo di persone eccezionali», capaci di dar vita con ironia e creatività a forme di resistenza culturale impensate di fronte a un sistema di potere sempre più assurdo.

Fisici, ingegneri, poeti, linguisti: intellettuali di ogni tipo di provenienza perlopiù armena, georgiana e ucraina, indubbiamente facilitati da condizioni di vita più morbide rispetto all’era staliniana o brezneviana, organizzavano corsi di lingua antica, sfide di dialettica ispirate alla figura di Socrate, persino gare di gastronomia… E poi interminabili serate a discutere di socialismo e della possibilità di far convivere comunismo e democrazia. Il libro di Berdzenišvili, che nel 1987 è stato liberato divenendo docente di Storia della letteratura antica, poi direttore della Biblioteca nazionale di Tbilisi e deputato del Parlamento georgiano, è costruito come una serie di ritratti di personaggi, in tutto una quindicina: i suoi compagni del gulag.

Come il fisico Petr Butov, originario di Odessa, arrestato nel 1982 e condannato a cinque anni di detenzione e due di confino. Di quale reato si era macchiato? Di aver dato vita alla più grande biblioteca di letteratura del samizdat di tutta l’Urss: conservava circa 30.000 opere a stampa e 20.000 microfilm. I libri di Salamov e Solženicyn, di Bulgakov e Pasternak, di Sacharov e Amalrik, ma anche i bollettini della resistenza antisovietica e persino le riviste dei dissidenti fuggiti all’estero come “Kontinent”, stampata da Maksimov a Parigi, erano a disposizione di una rete di migliaia di persone che desiderava leggerli. La biblioteca clandestina era dotata di una fotocopiatrice e di un laboratorio per la realizzazione di microfilm e riuscì a sopravvivere per ben dieci anni alle grinfie del regime, quando i famigerati cekisti la trovarono e la diedero alle fiamme. Essa rimane «l’ulteriore riprova del fatto che gli uomini sono stati capaci di grandi cose anche sotto il giogo di un ’impero del male». Altre figure leggendarie appaiono nel libro.

Ecco il tassista Zakaria Laskarasvili, uno dei pochissimi che non faceva la spia per conto del Kgb e che anzi aveva creato un’organizzazione segreta per l’indipendenza della Georgia. A Barasevo era famoso per conoscere alla perfezione la geografia fisica ed economica di tutti i Paesi del mondo e «poteva discettare per ore sui sensi unici, le strade carrabili e le zone pedonali di Parigi, Londra e New York». Nel lager si era preso una cotta per la responsabile dell’ufficio censura e tutti lo canzonavano: lei del resto continuava imperturbabile a manomettere la sua posta. Si considerava un estremista ultraradicale ed è stato probabilmente l’ultimo detenuto politico ad uscire dai gulag, nel luglio 1987. Ancora, il poeta Rafika (al secolo Rafael Asotovic Papayan), discepolo del grande linguista Jurij Lotman e fra i fondatori della sezione armena del Gruppo di Helsinki per la difesa dei diritti umani. Nel lager divenne protagonista di discussioni sulla paternità della lingua georgiana, a suo dire ideata da Mesrop Mastoc, già inventore dell’alfabeto armeno e santo della Chiesa apostolica.

Al matematico Vadim Anatolevic Jankov, grande esperto di linguistica indoeuropea (conosceva inglese, francese, tedesco, italiano, latino, greco antico e sanscrito) si deve il progetto dei dialoghi socratici, un gioco in cui lui stesso interpretava Socrate e gli altri detenuti i suoi discepoli o avversari. Nato a Taganrog, nella regione di Rostov, finita la detenzione è divenuto docente di storia della filosofia e matematica all’Università statale per le scienze umane di Mosca. Boris Manilovic invece improvvisava gare di poesia, ove ciascun recluso aveva 5 minuti per presentare o declamare il poeta preferito. Blok, Pasternak e la Cvetaeva i più gettonati. Amante dei calembour, la sua opera più adorata era L’Armata a cavallo e raccontava spesso la storia dell’autore: salvato da una famiglia di cristiani nel pogrom di Odessa del 1905, Isaak Babel era stato messo a morte nel 1940, come noto per ordine di Stalin in persona. A Barasevo si trovò per caso riunita una vera intellighenzia che avrebbe contribuito alla rinascita culturale e politica delle nazioni sorte dalle ceneri dell’Urss e che negli anni della glasnost soffriva ancor più la segregazione, mentre all’esterno si cominciava a respirare aria di libertà: «Non c’è nulla di più insopportabile – si dicevano fra loro Levan Berdzenišvili e i suoi amici – che stare al fresco in un momento così».

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