mercoledì 3 agosto 2016
Dietro le sbarre il riscatto degli ultimi
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Non esistono ragazzi cattivi. Lo sa bene don Claudio Burgio, da dieci anni cappellano del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano, che accompagna ogni giorno i detenuti nel loro faticoso cammino di redenzione umana: giovani dai 14 ai 18 anni che devono pagare un debito con la giustizia per reati che vanno dal furto alla rapina, dallo spaccio di droga all’omicidio, e per questo vivono in una condizione di reclusione (seppure con sprazzi di libertà) il cui scopo è, secondo la legge, espiare la pena e, soprattutto, seguire percorsi educativi e di integrazione sociale, insomma, prepararsi al“dopo”, alla vita, e non ricascarci più.«Un mondo capovolto quello che si scorge da dietro le sbarre ma anche un avamposto della società, dove si vedono meglio sofferenze e fragilità dei giovani» commenta il sacerdote, 47 anni, a lungo parroco di Sant’Ambrogio a Cinisello Balsamo, nell’hinterland milanese. Don Burgio, collaboratore di don Gino Rigoldi nell’istituto penale per minori del quartiere Baggio, è anche fondatore e presidente dell’associazione Kayròs che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi destinati agli adolescenti.Una realtà tremenda, quella del penitenziario, nella quale è sempre possibile però che gli ultimi, i “dannati”, i “cattivi”, diventino primi, cioè uomini in grado di assumersi delle responsabi-lità: un cambiamento che può accadere, comunque, solo se si affidano alla persona giusta, a un “tu” capace di amore.Don Burgio, cosa pensa di quei giovani che, commettendo dei crimini per cui sono finiti in carcere, si ritengono, essi stessi, irrimediabilmente cattivi?«In base all’esperienza che ho maturato in questo ambito posso dire che non esistono giovani veramente cattivi, almeno nell’accezione comune del termine, e questo anche se si rendono protagonisti di cattiverie: il mio è un giudizio che non ha nulla a che fare con il buonismo perché non si tratta di trovare giustificazioni a quello che fanno: questi giovani non sono cattivi ma, semmai, vivono in cattività, sono fragili, schiavi dei consumi e della propria immagine: vogliono essere qualcuno a qualsiasi costo e rimangono vittime di raggiri messi in atto dal sistema degli adulti».Come affrontare il rapporto con la persona in questo delicatissimo compito educativo?«La prima cosa è riuscire ad ascoltare i ragazzi in profondità attraverso un approccio iniziale che sia semplice, normale, mai dall’alto in basso. Basta dire: “come ti chiami?”, “cosa fai?”. Una stretta di mano e un sorriso bastano, all’inizio».Il principio da seguire, dunque, è quello della pari dignità umana...«Si deve conquistare la loro fiducia con gesti semplici e solo in un secondo momento si può decidere di andare in profondità, finché il giovane non decide liberamente di affidarsi, finché non è libero verso se stesso e gli altri».In pratica bisogna essere padri. Ma, dall’altra parte, anche essere figli. Cosa non sempre facile di questi tempi: c’è carenza di punti di riferimento, non si trova facilmente un “tu” a cui affidarsi.«Siamo tutti figli perduti e ritrovati, tutti bisognosi di guarigione e di perdono, tutti in viaggio verso casa alla ricerca del Padre. Certo, oggi mancano le figure paterne e un’autorità che faccia crescere chi ne ha bisogno. Si ha il più delle volte una concezione della paternità come un mero esercizio di potere che porta inevitabilmente a un rapporto dall’alto in basso, da padre-padrone. E questo impedisce ai figli di avere una loro identità».Il ruolo della famiglia, dunque, resta fondamentale?«Sicuramente. Attenzione, però: non solo quelle assenti ma anche le famiglie troppo affettive e problematiche possono creare danni. Un eccessivo familismo crea aspettative che, se non vengono assecondate, provocano nei figli una bassa stima verso se stessi, li inducono a non credere alle proprie capacità, come succede spesso nello studio o nello sport: non raggiungere certi risultati significa aver fallito... Ma non è così!».Lei ha costituito, tra l’altro, con altri preti la “Seleçao Internazionale Sacerdoti Calcio”, che promuove progetti di solidarietà. Può servire dunque lo sport a “emendare”?«Certamente. Ma quello sano. Perché anche padri troppo stressati causano danni ai figli. Se le pretese dei genitori si fondono con le risposte dei figli si determina un’ansia da prestazione che, come l’ansia del voto, alla fine porta il giovane abbandonare i suoi impegni».Lei è anche musicista e compositore ed è stato direttore della cappella musicale del Duomo di Milano. C’entra la musica nel suo lavoro di educatore?«Al Beccaria la musica è presente. È un’occasione per stare insieme e imparare. Ci sono ragazzi detenuti che scrivono canzoni e cantano. Soprattutto rap. Con testi interessanti che raccontano la loro vita, il loro mondo interiore, e da cui si possono capire molte cose».E la fede?«Ci sono molti musulmani in carcere, più del 30%. Ma la fede, la Messa per i cattolici, non viene in genere vissuta come un ritualismo. Esiste, da parte della maggioranza dei ragazzi, un desiderio autentico di conoscere la fede, si fanno domande sul Mistero. Sono curiosi, non danno nulla per scontato, vogliono andare al cuore della loro esistenza».5, fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate l’8 e il 22 giugno e il 6 e il 20 luglio

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