venerdì 18 novembre 2022
Nei “Lai del Beleriand”, curati dal figlio Christopher, spicca la cura maniacale che metteva nel creare i personaggi. Ispirati dai miti, ma anche dalla vita privata
J.R.R. Tolkien (1892-1973)

J.R.R. Tolkien (1892-1973) - archivio

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È sempre opportuno tornare ad Arda, il mondo raccontato da Tolkien, per la via privilegiata dei testi. E se le uniche due opere pubblicate in vita dal Professore – e cioè Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli – non dovessero bastare, se quel fiore della mitologia di Arda che è il Silmarillion, curato dal figlio Christopher, suo esecutore letterario, non fosse sufficiente, è ora in corso di pubblicazione per Bompiani la prima traduzione italiana completa della Storia della Terra di Mezzo. Si tratta di una serie di dodici volumi in cui Christopher Tolkien ha raccolto dal 1983 al 1996 spunti narrativi inediti poi abbandonati e prime versioni di racconti che sarebbero confluiti principalmente nel Silmarillion o nel Signore degli Anelli. I primi due libri della serie, che compongono Il libro dei Racconti Perduti, ripropongono la traduzione di Cinzia Pieruccini, rivista e ampliata in collaborazione con l’“Associazione italiana studi tolkieniani”. Gli altri volumi, invece, sono presentati in Italia per la prima volta, a iniziare dal terzo, I lai del Beleriand, tradotto da Luca Manini e arrivato da poco in libreria (Bompiani, pagine 400, euro 20,00). Si tratta ovviamente di un’esperienza di lettura diversa rispetto a quella delle altre opere tolkeniane, ma che consente di comprendere meglio la complessa genesi delle storie che compongono il legendarium tolkieniano, l’insieme delle leggende di Arda.

Le diverse stesure dei racconti mostrano come l’ispirazione iniziale sia seguita sempre da continui ripensamenti e tentativi di conferire maggior coerenza alle storie, e anche da una costante elaborazione stilistica e formale, che riguarda innanzitutto i nomi propri, perché l’attenta ricerca estetica è stata uno dei motori principali della creatività del Professore. Questa “stratificazione” del processo creativo del padre è ben descritta e documentata con acribia filologica da Christopher, che ha corredato i testi di ampie introduzioni, note e commenti, nonché di approfondite descrizioni dei materiali utilizzati, che vanno dai quaderni con stesure a penna che sostituiscono prime versioni a matita ai dattiloscritti. Una cura quasi maniacale, a conferma di quanto il sostrato mitologico di Arda fosse per Tolkien un presupposto più che essenziale per la grande storia dell’Anello, ma che rischia di alimentare i pregiudizi di chi si ostina a immaginare un Tolkien in costante fuga dalla realtà, tutto perso nei suoi mondi immaginari. Fra le gemme che compaiono in queste pagine, c’è un racconto centrale nell’immaginario tolkieniano, quello che ha per protagonisti Beren e Lúthien, la storia dell’amore fra un uomo (uno gnomo, nella prima versione) e una principessa degli Elfi, che sarà segnata da indicibili sofferenze ma anche da un’ostinata fedeltà capace di superare ogni ostacolo.

Una storia che viene riproposta anche nel Silmarillion e a cui si allude nel Signore degli Anelli, dove è presentata come un riferimento puntuale per l’amore di Aragorn e Arwen. La prima versione è del 1917 e a ispirare Tolkien fu un incontro con sua moglie a Roos, nello Yorkshire, nel bel mezzo del primo conflitto mondiale. La bellezza che irrompe nell’assurda follia della guerra: Edith, sua moglie, che danza per lui nel bosco, fra i fiori candidi di cicuta. Così come farà la bella Lúthien, senza accorgersi di essere ammirata da Beren. E gli appassionati sanno certamente che i nomi Beren e Luthien compaiono sulle lapidi di John ed Edith, nel cimitero di Wolvercote, a Oxford. Dalla realtà alla sua trasfigurazione mitica per poi tornare di nuovo alla realtà. There and back again, verrebbe da dire. Eppure, come tenne a precisare lui stesso in una lettera ai figli, Tolkien non chiamò mai sua moglie Lúthien. È evidente come la sub-creazione tolkieniana non sia affatto mero escapismo, un volgere lo sguardo lontano dalla vita di tutti i giorni favoleggiando di elfi, nani e orchi: col mito, Tolkien non ha voluto né distrarre dalla realtà, né mostrarla per come dovrebbe essere in una dimensione ideale, ma ha preferito piuttosto abbracciarla nella sua interezza e complessità.

Un passo del racconto Ælfwine d’Inghilterra, che chiude il Libro dei Racconti Perduti, esemplifica perfettamente l’ispirazione e la poetica di Tolkien. Quando Ælfwine e i suoi compagni alla fine di un lungo e doloroso viaggio in mare udirono sull’acqua una musica di estrema dolcezza, essi «piansero piano, ciascuno per le ferite mezzo scordate del proprio cuore e per il ricordo delle cose belle da lungo perdute, e per la sete che è in ogni figlio degli Uomini di una bellezza perfetta che cercano e non trovano». Tutta la mitologia tolkieniana, potremmo dire, scaturisce da una conoscenza profonda del cuore umano, dei suoi slanci e delle sue contraddizioni, e dall’ascolto attivo di quella nostalgia della Bellezza che qui e oggi si lascia solo intuire senza farsi trovare, ma non per questo è meno reale.

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