martedì 20 agosto 2019
Il 23 agosto 1989, gli abitanti di tre Paesi uscirono dalle loro case, si diedero l’un con l’altro la mano e formarono un’ininterrotta catena umana da Tallinn a Riga, da Riga a Vilnius per la libertà
Il 23 agosto 1989, gli abitanti dei Paesi Baltici uscirono dalle loro case, si diedero l’un con l’altro la mano e formarono un’ininterrotta catena umana da Tallinn a Riga, da Riga a Vilnius

Il 23 agosto 1989, gli abitanti dei Paesi Baltici uscirono dalle loro case, si diedero l’un con l’altro la mano e formarono un’ininterrotta catena umana da Tallinn a Riga, da Riga a Vilnius

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«Potrò ancora sposarmi?». Gli occhi interrogativi e la disarmante domanda di Loreta Asanaviciute vinsero una guerra nel migliore dei modi possibili: impedendo che venisse combattuta. Nella notte tra il 12 e il 13 gennaio 1991 Vilnius era occupata dai carri armati inviati da Gorbacëv (la storia non è mai tutta bianca o tutta nera) per stroncare la volontà dei Paesi Baltici di riconquistare l’indipendenza perduta il 23 agosto 1939, quando il patto Molotov-Ribbentrop abbandonò a Stalin Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e mezza Polonia.

Nell’esatto cinquantenario di quel patto scellerato, il 23 agosto 1989, gli abitanti dei Paesi Baltici uscirono dalle loro case, si diedero l’un con l’altro la mano e formarono un’ininterrotta catena umana da Tallinn a Riga, da Riga a Vilnius. Due milioni di persone, per chiedere pacificamente il ripristino dell’indipendenza rubatagli cinquant’anni prima. Era l’epilogo della “rivoluzione cantata”, il moto di popolo che, negli anni ancora plumbei dell’Unione Sovietica, aveva dato sfogo alla volontà di riconoscimento e di libertà dei popoli baltici attraverso la partecipazione di massa ai festival di musica popolare.

Un esempio di compostezza, civiltà e determinazione che colse di sorpresa l’Occidente, ormai assuefatto all’immobilità dell’oltrecortina nonostante le speranze generate dalla Glasnost’ e dalla Perestrojka di Gorbacëv e per di più distratto dalla Guerra del Golfo contro Saddam Hussein. E che colse di sorpresa la stessa Mosca, tanto che Gorbacëv reagì seguendo il più classico degli schemi sovietici: mandando i carri armati.

Posti di fronte alla folla pacifica e immobile che trovarono nelle strade di Vilnius in quel gennaio del 1991, per di più in diretta televisiva ininterrotta, non seppero cosa fare e alla fine Gorbacëv si rassegnò a richiamare i blindati. Lasciando però a terra quattordici vittime nei loro movimenti scomposti in mezzo alla folla, come quello che travolse Loreta Asanaviciute.

Portata all’ospedale, Loreta pose la sua ultima, disperata domanda e poi morì quel giorno stesso, il 13 gennaio. L’immagine della ragazza poco più che ventenne, con le gambe maciullate sotto i cingoli, ebbe un impatto decisivo sul corso della storia, e bene ha fatto Jan Brokken a includere il suo profilo accanto a quello di “grandi” come Pärt, Ejzenštejn o Rothko nel suo Anime baltiche (Iperborea 2015).

La “rivoluzione cantata”, la “catena baltica”, la resistenza di Vilnius invasa avevano dimostrato che l’anelito verso la libertà di estoni, lettoni e lituani non era più soffocabile. Si susseguirono, inattesa accelerazione della storia, le dichiarazioni di indipendenza, i riconoscimenti internazionali; da lì a un paio di mesi il crollo del Muro di Berlino avrebbe sancito definitivamente il crollo dello stesso impero sovietico.

Riacquistata l’indipendenza, i baltici fecero in fretta a riportarsi nel quadro dello scenario europeo al quale erano sempre appartenuti. Lasciandosi rapidamente alle spalle il cinquantennio di occupazione sovietica, entrarono appena possibile nell’Unione Europea e nella Nato, erigendo così un baluardo a difesa della loro indipendenza, che tuttavia ancora oggi deve fare i conti con la presenza dei russi all’interno e all’esterno dei loro confini.

All’interno, i russi rappresentano una cospicua minoranza, non integrata, erede delle migrazioni volute già da Stalin per colmare i vuoti di popolazione che lo stesso dittatore aveva creato con le deportazioni forzate dei baltici all’indomani della Seconda guerra mondiale. All’esterno, con la minacciosa vicinanza del colosso di Putin, che non ha mai nascosto di considerare tuttora i baltici parte di quella che, con lessico solo apparentemente d’altri tempi, considera la propria “sfera d’influenza”. Oggi l’Unione Europea, pure nelle sue divisioni e nelle sue indecisioni, non può venir meno al suo compito storico di difendere i Paesi Baltici, che temono sempre di essere nuovamente abbandonati all’ingombrante vicino: come era avvenuto quel 23 agosto 1939.


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