venerdì 12 dicembre 2014
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Si avvicinava il Santo Natale del 1914, primo anno di guerra. Sia sul fronte occidentale, dove ormai un’unica linea trincerata collegava il Mare del Nord alle Alpi, sia su quello orientale, si registrava – dopo sanguinosissime battaglie dagli esiti alterni – una situazione di stallo. Benedetto XV, che aveva visto naufragare il tentativo di fermare la luttuosa macchina bellica, provò agli inizi di dicembre a suggerire ai capi delle nazioni che i fucili tacessero almeno durante le feste natalizie. Ma la compassionevole proposta di una «tregua di Natale» – accettata dalla Germania, ma non dalla Francia e dalla Russia – non passò. E già il 12 dicembre l’Osservatore Romano doveva prendere atto che, in mancanza della necessaria unanimità, l’idea di un temporaneo cessate il fuoco era fallita. Troppi apparvero ai governanti e agli alti comandi militari i rischi, in un conflitto che esigeva cieca brutalità e spietatezza, di una irruzione tra le truppe di sentimenti di umanità, religiosità e fraternità. Quasi che festeggiare il Natale senza sparare un colpo, senza uccidere o essere uccisi, potesse minare la propensione al combattimento, l’odio verso il nemico e la fede incrollabile nella vittoria.  Il rifiuto della tregua natalizia addolorò particolarmente Benedetto XV che, il 24 dicembre, incontrando il collegio cardinalizio, ripercorse il suo tentativo «di schiudere, in mezzo a queste tenebre di bellica morte, almeno un raggio, un solo raggio del divin sole della pace». La delusione del Papa fu cocente. Aggiunse Benedetto XV, con toni accorati: «Oh! la cara speranza che avevamo concepito di consolare tante madri e tante spose con la certezza che, nelle poche ore consacrate alla memoria del Divino Natale, non sarebbero i loro cari caduti sotto il piombo nemico: oh! la dolce illusione che ci eravamo fatta di ridare al mondo almeno un assaggio di quella pacifica quiete che ignora ormai da tanti mesi! Purtroppo la nostra cristiana iniziativa non fu coronata di felice successo. Ma non per questo scoraggiati, noi intendiamo di proseguire ogni sforzo per affrettare il termine della incomparabile sciagura, o per alleviarne almeno le tristi conseguenze». Se l’appello papale – che provocò dibattiti e discussioni, con consensi e dissensi in tutta Europa e anche in America – restò lettera morta, la spontanea mobilitazione di soldati sul fronte occidentale produsse tante piccole «tregue di Natale», coinvolgendo in particolare militari inglesi e tedeschi, che si fronteggiavano nei campi trincerati nella zona di Ypres, Armentières e Lille. I testimoni ricordano molti commoventi episodi: i canti natalizi, primo fra tutti Stille Nacht che si rimbalzavano nelle due lingue da una trincea all’altra, poi la timida apparizione di cartelli con scritte augurali. E, finalmente, con molta circospezione, gruppetti di soldati disarmati che uscivano dalle trincee, camminando lentamente verso le postazioni nemiche recando doni e biglietti augurali. Quasi sospinti da una forza invisibile– la forza residua dell’umanità dopo mesi di orrori e violenze – ben presto decine, centinaia di fanti dei due eserciti si ritrovarono nella terra di nessuno, stringendosi le mani, abbracciandosi, scambiandosi regali e cartoline, mostrandosi a vicenda le foto delle fidanzate e, persino in qualche caso, suonando, ballando e dando vita a partite di calcio con una palla fatta di stracci.  Fu il New York Times, con una corrispondenza dalla Francia settentrionale del 30 dicembre del 1914, a rompere il velo di silenzio su questi episodi che furono numerosi. Il corrispondente di guerra del giornale americano notava che tra i reticolati i combattenti dei due fronti erano riusciti a dar vita a una vera e propria celebrazione in comune delle festività. E raccontava un fatto curioso di cui era venuto a conoscenza. A iniziare erano stati due soldati inglesi che, dopo aver inalberato il segnale di tregua, si erano avvicinati prudentemente alle trincee tedesche. Lì erano stati ricevuti con tutti gli onori: e in cambio di fette di mince pie (un dolce tipico natalizio inglese) avevano ricevuto vino e liquori, tornando incolumi alla base. Poche ore dopo, due fanti prussiani si apprestavano a restituire la visita, ma una zelante sentinella inglese, vedendoli arrivare, li aveva arrestati puntandogli il fucile contro. L’incidente venne prontamente risolto dall’intervento di un ufficiale inglese, che accettati i doni e scambiati gli auguri, ordinò alla sentinella di lasciare che i due tornassero alla loro trincea.  Non tutti gli ufficiali, specie quelli superiori, però furono condiscendenti. Gli alti comandi dell’una e dell’altra parte, colti di sorpresa da questa esplosione di umanità, andarono su tutte le furie. Non potendo punire migliaia di soldati (tale fu l’ampiezza del fenomeno), decisero di porre rimedio alla pericolosa “fraternizzazione” coi nemici a partire dalle festività successive, con tassativi divieti, rigidi controlli e avvicendando i combattenti nelle trincee alla vigilia dei giorni di festa. L’Italia nel 1914 non era ancora in guerra. Ma nemmeno il Comando supremo italiano avrebbe tollerato scambi di auguri natalizi con il nemico. Come attesta, tra le tante, la vicenda (raccontata da Alberto Monticone nel suo libro Plotone di esecuzione) dell’aretino M.E., 23 anni, caporale in forza del 129° fanteria, condannato a un anno di reclusione militare per «rifiuto d’obbedienza e conversazione con il nemico». Cosa era successo? Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre 1916 sul Monte Zebio, è riportato nella sentenza di condanna, «gli austriaci esposero un cartellone con suvvi scritto a grandi caratteri “Buon Natale” in lingua tedesca. Il caporale M.E. rispose, gridando nella stessa lingua un ringraziamento e un contraccambio». E questo nonostante che dal comando del corpo d’Armata fossero state date «precise istruzioni» per «evitare rigorosamente siffatte deplorevoli manifestazioni».
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