sabato 21 ottobre 2017
Nell'ultimo saggio del critico morto a febbraio si denuncia il rischio per le democrazie moderne, che viene dall'utopia di un nuovo ordine mondiale senza guerre. Un parallelo fra Urss e mondo liberale
Todorov. Gli artisti contro i totalitarismi striscianti delle nostra epoca
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Fa riflettere che due intellettuali accomunati dall’anno di nascita, il 1939, ma diversi per storia e ambiti di ricerca culturale, abbiano dato alle stampe negli ultimi anni due saggi che muovono dalla medesima preoccupazione: prendere insegnamento dalla storia recente dei totalitarismi per mettere in guardia l’Occidente democratico da derive che sembrano celare un nuovo totalitarismo. Del libro di Robert Darnton sulla censura abbiamo già scritto qualche settimana fa, soffermandoci in particolare sulle vicende della Ddr, la Repubblica democratica tedesca, durante la Guerra Fredda. Esce invece in questi giorni da Garzanti l’ultimo libro di Tzvetan Todorov – critico letterario e storico di origini bulgare e naturalizzato francese scomparso in febbraio – che s’intitola L’arte nella tempesta ( pagine 254, euro 22) e affronta la vicenda degli artisti russi all’epoca della rivoluzione d’Ottobre. Il titolo originale francese suona però sibillino: Il trionfo dell’artista.

Quale trionfo? Quello di chi, esiliato represso o ucciso, diventa per i posteri testimone d’accusa del totalitarismo? In un certo senso è così, ma è difficile sposare in toto l’opinione utopica di Todorov: «I detentori del potere sono capaci di annientare quelli che vogliono sottomettere, ma non hanno alcuna presa sui valori estetici, etici, spirituali, provenienti dalle opere prodotte da questi artisti... Senza queste opere l’umanità non potrebbe sopravvivere, né allora né oggi. È qui il trionfo dei fragili eroi del nostro racconto». Darnton, americano, storico delle idee e della cultura, ha invece uno sguardo disincantato sui rischi del mondo libero e democratico: «Mentre si cerca di capire, si deve prendere posizione, in special modo di questi tempi, in cui lo Stato potrebbe osservare ogni nostra mossa».

Nella sovietica società del “Noi”, come la definì nel suo omonimo romanzo Evgenij Zamjatin, l’individuo è ridotto a numero e «qualunque numero ha diritto di utilizzare qualunque altro numero a fini sessuali». Il grottesco di questa affermazione è la rappresentazione stessa del sistema dove il Benefattore vigila e guida il “Noi” e – riassume Todorov – «la popolazione è sorvegliata e controllata in maniera permanente: i cittadini partecipano a elezioni i cui risultati sono decisi e annunciati in anticipo». La lunga militanza di George Orwell nelle fila della sinistra marxista (fino al riconoscimento delle malefatte staliniane), fa capire dove abbia mutuato la sua idea di Grande Fratello. Ma, attenzione, anche Orwell parla a nuora perché suocera intenda: prende spunto da qualcosa di reale ancora in fieri, il sovietismo, per mettere in guarda chi si crede dalla parte dei buoni.

Un avvertimento però ignorato dopo la caduta del Muro, visto in che stato versano molte nostre democrazie. Todorov ripercorre le vicende di alcuni dei maggiori scrittori e artisti negli anni della ri- voluzione d’Ottobre (Majakovskij, Mandel’stam, Cvetaeva, Bulgakov, Gor’kij, Blok, Pasternak, Babel’, Zamjatin, Šostakovic, Ejzenštejn) e al pittore Malevic dedica quasi metà del libro. Tutti – chi più chi meno – critici verso l’eterogenesi dei fini della rivoluzione con l’affermarsi dei bolscevichi sotto la guida di Lenin. Chi rende meglio la situazione è Pasternak col poema pubblicato postumo ma scritto all’inizio del 1918, La rivoluzione russa. In realtà, le rivoluzioni furono due: quella di febbraio e quella di ottobre. Così riassume Todorov: «La prima è salutata con entusiasmo (“Com’era bello respirare attraverso di te a marzo”), perché incarna una speranza: “che questa, la più luminosa di tutte le grandi rivoluzioni, non farà scorrere il sangue”. Tutto è cambiato nell’aprile 1917 con l’arrivo di Lenin nel suo vagone piombato: il dirigente bolscevico ha portato con sé la distruzione feroce. Ha imposto: “Colate delle rotaie fondendo gli uomini!”. Senza alcun rispetto per il proprio Paese, ha ordinato: “Affumica, distruggi e passa! (...) Distruggi, è qui la patria (...), distruggi non temere i divieti!”».

E a farne le spese furono negli anni milioni di contadini e operai, ridotti alla fame e uccisi. Gli artisti, vedi Majakovskij, erano per la rivoluzione, data la loro indole spesso anarchica; ma dopo l’ottobre 1917 i rapporti cambiano: ora è il nuovo potere che detta loro le regole. Non si può, nota Todorov, istituire un nesso di causa ed effetto fra letteratura, arti e prassi rivoluzionaria. Lo stesso Zeitgeist, lo spirito del tempo, resta «difficile da attestare con precisione», ma qualcosa era nel-l’aria: il rifiuto del potere ingiusto dello zar. Lo dice chiaro Andrej Belyj nel 1917: «Il rivoluzionario e l’artista sono uniti dalla fiamma del loro entusiasmo ». Lenin e Stalin, aggiunge Todorov, probabilmente non avevano letto Nietzsche, ma i capi della rivoluzione più interessati alle idee ne conoscevano le opere e la celebre dialettica fra dionisiaco e apollineo (maschera dell’Occidente). La volontà di potenza porta Lenin dopo la rivoluzione a vedere le masse popolari come materia umana da trasformare; la stessa volontà che lo spinge a fare dell’Urss una macchina indu-striale, una potenza mondiale. E in questa linea di ottimismo per così dire belligerante ogni critica è passibile di censura o punita col carcere, l’esilio oppure la morte. Non a caso, se la rivoluzione di febbraio aveva abolito la pena capitale, quella di ottobre la ripristinò in grande stile. Questo e tutto il resto che segna gli sviluppi del comunismo sovietico che cosa ci insegna, secondo Todorov? Che «dalle nostre parti questa esperienza non si ripeterà! Saremo più avveduti dei nostri predecessori».

Sicuro? Anche Todorov ha qualche dubbio. Dicendo che la vicenda dell’Urss ha qualcosa da insegnarci è come se ammettessimo «una certa continuità o somiglianza fra i regimi comunisti del passato e le democrazie liberali del presente». E così si riallaccia a un suo precedente volume Memoria del male, tentazione del bene, del 2000, dove metteva in guardia dal delirio di onnipotenza dell’Occidente dopo la fine del comunismo. L’accusa va alla hybris esemplificata dalle guerre americane per l’esportazione della democrazia: «Instaurare un nuovo ordine mondiale da cui sarebbero bandite le guerre e le violenze, è un progetto che si avvicina alle utopie totalitarie» (ma non è da questo che iniziano tutte le rivoluzioni?). «E così è possibile osservare una forma di messianismo politico sia sotto i regimi comunisti sia nelle democrazie liberali di oggi» conclude Todorov. Esiste anche il messianismo democratico dei numeri, per esempio: l’algoritmo a cui banche e società di mercato, social network e teorici del bene comune si affidano oggi per governare il mondo è disumanizzazione. È il cavallo di troia dei poteri forti che condizionano le masse con un duplice fine: consumo e consenso. E gli artisti oggi che fanno? Per lo più si adeguano.

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