sabato 9 luglio 2016
Tarzan, l’altro volto della giungla
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«La sua età?», gli domanda il portiere del lussuoso albergo napoletano, lui con bombetta in testa e pelle di leopardo su un fisico per nulla palestrato. «Quattro eclissi, due alluvioni e un pediluvio», risponde sarcastico. Il mito di Tarzan, e la sua fortuna, erano talmente diffusi che nel 1950 Mario Mattioli addirittura ebbe il coraggio di offrire a Totò una inverosimile parodia dell’«uomo delle scimmie ». Il cinema aveva già attinto a piene mani ai romanzi di Burroughs, partendo naturalmente dall’epoca del muto, nel 1918, addirittura con due film entrambi interpretati da Elmo Lincoln - lui sì con i pettorali adatti, come aveva notato D.W Griffith -. Tanta era la sua affezione per il personaggio che a 60 anni l’attore aveva accettato di mettersi a fianco del più famoso e prestante Lex Barker - che di Tarzan ne fece cinque -, come un semplice pescatore in Tarzan e la fontana magica, del 1949. Quest’ultimo era riuscito a farsi notare ed essere scelto dopo che il produttore Lee Sholem aveva pazientemente intervistato più di mille candidati per sostituire chi di Tarzan ne era diventato l’icona, ossia Johnny Weissmuller. Aveva certo alle spalle un allenamento adatto a mostrare tutta la sua scultorea prestanza: per cinque volte era salito sul podio olimpico per altrettante medaglie d’oro nel nuoto. E proprio nuotando, nel 1932, era stato notato nella piscina di un hotel da Cyril Hume, che in quel momento stava lavorando a Tarzan, l’uomo scimmia, il primo Tarzan sonoro. Anche se Johnny di mogli ne aveva avute ben sei, il pubblico si era identificato in lui ritenendolo un eroe innamorato per sempre della sua Jane, l’attrice Maureen O’Sullivan. «I film di Tarzan sono film decenti, fatti per le famiglie - ripeteva -. È una storia idealista, con i piedi per terra, quella dell’amore che un uomo ha per gli animali e della cura che riserva alla sua famiglia ». Per dodici volte vestì quei panni, passando poi ai sedici di Jim della jungla, tanto per non star distante dalle foreste. Con l’eccezione di Gordon Scott negli anni ’50 e ’60 - per sei film, fisico da culturista - Tarzan era poi sparito dallo schermo. Un tentativo era stato offerto a Christopher Lambert nel 1984 e la Disney nel 1999 lo ha fatto protagonista di un suo film d’animazione. Ora che le istanze ecologiste sono una esigenza e una realtà globale, che i super eroi tecnologici sono in affanno e il cinema può permettersi di ricreare digitalmente tutto il parco zoologico dell’Africa, David Yates - il regista dei quattro film finali della saga di Harry Potter e dell’imminente Fantastic Beasts and Where to Find Them - ne dirige una riesumazione sontuosa e aggiornata, The Legend of Tarzan, in sala da giovedì prossimo. «Ho letto la sceneggiatura - confessa il regista - e ho sentito di aver trovato qualcuno con un cuore grande e pulsante. Volevamo per questo realizzare un film che fosse avvincente, ma che toccasse anche i temi della famiglia, delle comunità e della salvaguardia del pianeta». Non è stato facile trovare il Tarzan adeguato, che fosse meno muscolare dei precedenti e più adatto ad incarnare i tormenti dell’uomo integro, anche se dell’Ottocento, che reagisce dinanzi al procedere del progresso, quando per l’Africa significava soltanto sfruttamento e schiavitù. Alexander Skarsgård, figlio maggiore di Stellan e già vampiro avvenente nella serie True Blood, è stata un’ottima scelta. Ha i tratti nobili del personaggio: è il quinto Conte di Greystoke che all’inizio del film viene convocato al n. 10 di Downing Street dal Primo Ministro di Sua Maestà per una missione che lo costringe a ritornare in Congo (il set è stato, però, il Gabon) per confrontarsi, nuovamente a fianco della sua bella e altrettanto indomita Jane (Margot Robbie), con uno spietato capitano belga interpretato da ChristophWaltz, le cui mire di potere minacciano tutto ciò che Tarzan, nella sua gioventù, ha conosciuto, amato e difeso: la natura, gli animali, la gente locale, la tribù che lo ha accudito. Più in generale, il rispetto per la natura, la libertà e la dignità dell’uomo. «Questo non è il Tarzan che vi aspettate - suggerisce l’attore svedese -, è un personaggio che si è lasciato la giungla alle spalle e pensa di non doverci tornare mai più. È quasi l’opposto del romanzo o della maggior parte degli adattamenti precedenti, che trattavano come addomesticare un selvaggio. Perché è il ritorno difficile dell’uomo civile al suo stato primordiale, da John Clayton a Tarzan». E anche un atto di accusa verso il colonialismo: durante il regno di re Leopoldo, il Congo belga fu sfruttato in modo inverosimile e spietato. «Fu un genocidio - conclude Skarsgård -. Si stimano 20 milioni di morti. È questa sottile sfumatura che attraversa tutto il film, pur ricco di avventure ». Per un paio di volte sentiamo anche il suo famoso richiamo. Nella sua Africa.
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