martedì 27 dicembre 2016
Trent’anni fa moriva il grande regista russo. Nei film e negli scritti esorta il mondo contemporaneo a riaprire lo sguardo alle logiche spiazzanti dello spirituale
Andrej Tarkovskij dietro la macchina da presa

Andrej Tarkovskij dietro la macchina da presa

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Era la notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1986 quando il regista russo Andrej Tarkovskij morì esule a Neuilly, in Francia. E la moglie Larissa, dopo aver rifiutato l’invito delle autorità sovietiche di allora a far rimpatriare il corpo del marito, decise di farlo seppellire nel cimitero cristiano ortodosso di Sainte-Génèvieve- de-Bois, una cittadina sita venti chilometri a sud di Parigi. A trent’anni dalla morte di Tarkovskij non mancano occasioni ed eventi utili non tanto per suscitare nostalgia, quanto per tornare a guardare i suoi film (magari restaurati, come l’ultimo da lui girato, Sacrificio, proiettato qualche giorno fa a Firenze), o magari per goderne la visione per la prima volta.

Oltre che implicato nella realizzazione di lungometraggi (appena sette in 25 anni: L’infanzia di Ivan, Andrej Rublëv, Solaris, Lo specchio, Stalker, Nostalghia, oltre al citato Sacrificio), di un documentario ( Tempo di viaggio), di un cortometraggio e di due mediometraggi, il talento di Tarkovskij è stato artefice di scritti fondamentali sul fare cinema, sul suo fare cinema. In Martirologio. Diari, ripubblicati due anni fa dall’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij in edizione aggiornata e con nuovi materiali, la riflessione s’intreccia con gli eventi quotidiani, con gli incontri, con le frequenti e aspre difficoltà con le quali ha dovuto fare i conti. Ma c’è soprattutto Scolpire il tempo, il libro la cui stesura iniziò addirittura agli inizi degli anni Settanta, quando il regista risiedeva ancora in Unione Sovietica. Pubblicato in edizioni tedesca e inglese rispettivamente nel 1984 e nel 1986, dunque quando Tarkovskij era vivo, il libro uscì invece in Italia da Ubulibri nel 1988. Ripubblicato ora anche questo dall’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij (a cura di Andrej Andreevic Tarkovskij, traduzione di Vittorio Nadai, pagine 254, euro 25,00), il libro comprende come ultimo capitolo il testo dedicato a Sacrificio (assente nelle edizioni tedesca e inglese e presente, ma solo come Appendice, nell’edizione italiana del 1988).

Sempre attuale, sempre più attuale, nella sua inattualità, le riflessioni del russo sull’arte, sul fare cinema, sulla poesia («Mi sono sempre sentito più un poeta che un cineasta», confessa qui) è sempre in ultima analisi «osservazione della vita», ricerca di un «tipo speciale di rapporto con la realtà» (così definisce la poesia). Il suo punto di vista di regista-sceneggiatore- poeta è stato fin dall’inizio marcatamente soggettivo, ma con una forte tensione alla condivisione e al confronto con lo spettatore. «Il mondo è pieno di prodigi incomprensibili», scriveva riflettendo su Sacrificio, ma la contemporaneità ha subito una «devastazione spirituale». L’uomo moderno ha subito una «rapina», è «incapace di sperare una conclusione inattesa, in un avvenimento contraddittorio che non corrisponda alla logica “normale”, ancor meno è capace di ammettere il miracolo neppure per ipotesi». Da questa consapevolezza l’attenzione, il rispetto che Tarkovskij ha sempre avuto per lo spettatore, per la sua libertà. Tanto da sottolineare un nesso tra la «logica della poesia » che doveva dare forma al suo cinema e chi si predispone ad accogliere l’opera: «La forma poetica dei collegamenti eleva la tensione emotiva e rende più attivo lo spettatore».

Testimonianza del fatto che il cinema di Tarkovskij e i suoi scritti sono fuoco che incendia, materia che sollecita verso le «sorgenti ostruite e inaridite della nostra vita «, segnaliamo la pubblicazione a più voci appena edita dall’università di Potsdam, Andrej Tarkovskij. Klassiker - Classic - Classico, a cura di Norbert P. Franz ( Universitätsverlag Potsdam, 2 volumi, pagine 680, euro 27,50), non nuova ad iniziative dedicate al regista. Raccoglie gli atti del primo simposio internazionale dedicato al regista, tra i ventinove contributi di altrettanti studiosi-spettatori di ogni angolo del globo (tra cui la sorella del regisa, Marina), segnaliamo quelli italiani. Con Simonetta Silvestroni viene indagata la ricorrenza della finestra nei film del russo, intesa come strumento per entrare in una dimensione altra. Manuele Cecconello si sofferma sul cinema tarkovskijano inteso come “tempo in atto”, come «presenza corporea, quasi solida di tempo», mentre Roberto Calabretto aiuta a riascoltare «l’organico risuonare del mondo», la musica (cioè ogni suono) presente nei film di Tarkovskij. Infine, il contributo di Marina Pellanda, utile per intendere quale e quanta eredità del russo sia diffusa nelle opere di registi contemporanei, da Sokurov a von Trier, a Bellocchio.

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