sabato 22 agosto 2020
Fuggito a 13 anni, il sudanese incontrò il vescovo italiano. Nei suoi scritti la coscienza della dignità nera e dei disastri della civilizzazione europea
Padre Comboni con Daniele Sour Pharim Den

Padre Comboni con Daniele Sour Pharim Den - Archivio

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«Sapevo che se mi fossi rifugiato presso i missionari sarei stato al sicuro… Ma la prima cosa che gli arabi hanno cura di dire ai loro schiavi è che i cristiani mangiano carne umana e io ero realmente persuaso di queste dicerie…». Lo scrive Daniele Sorur Pharim Den nelle sue Memorie raccontando del difficile momento in cui, schiavo fuggito dal suo padrone, si trova a dover scegliere se rifugiarsi nella foresta e rischiare di essere mangiato dalle belve o recarsi alla casa dei missionari bianchi e finire mangiato da questi.

Siamo nel 1873 a El Obeid, in Sudan, e la casa dei missionari è quella fondata l’anno prima da Daniele Comboni. Il fuggiasco ha più o meno 13 anni, è un “dinka” rapito nel Sud Sudan un paio di anni prima da razziatori arabi che, forse per sfregio, lo hanno chiamato “Sorur” (gioioso). Quando finalmente riesce a fuggire resta nascosto e per lungo tempo assillato dal terribile dilemma (le belve, i missionari, lo scudiscio del padrone) finché «una voce insistente e misteriosa» lo consiglia: «Volgi i passi alla missione e non temere». Così, appena fa buio esce dal suo nascondiglio e si reca alla casa dei bianchi.

Il suo primo incontro è proprio col vescovo Comboni e il dialogo che ne emerge, in piena notte, alla luce di un lume, oltre che profetico, è godibilissimo: «“Di chi sei schiavo?”. “D’un cammelliere” risposi. “Dov’è la casa del tuo padrone?”. “Molto lontano da qui”. “E chi ti manda?”. “Allah, Iddio, mi manda presso di te”».

Comincia in questo modo la nuova vita del sudanese, naturalizzato italiano, Daniele (come Comboni) Sorur. Una storia in cui, chi conosce le vicende di santa Giuseppina Bakhita (di otto o nove anni più giovane), troverà molte assonanze: il rapimento, i predoni e i mercanti arabi, l’imposizione di un nome paradossalmente bene augurante (Bakhita vuol dire “fortunata”), la città di El Obeid, la schiavitù e le sue indelebili cicatrici, la fuga, l’incontro con un italiano, l’arrivo in Italia (Sorur nel 1876, Bakhita nel 1881), il passaggio nella città di Suakim sul Mar Rosso, l’avvio alla vita religiosa.

Molto diverso, invece, è il modo in cui da africani neri si relazionano con l’Occidente bianco. Bakhita resta per sempre in Italia, non impara mai a scrivere e fa dell’umiltà assoluta, del gioioso servizio al prossimo, della mistica e del perdono la sua personale strada per l’integrazione e il dialogo.

Sorur, invece, avviato al sacerdozio, punta molto sugli studi, prima al Collegio Urbano di Roma e poi alla Saint Joseph di Beirut; impara numerose lingue europee e l’arabo, oltre al latino e a un paio di idiomi africani; torna da missionario in Africa, dove muore di tubercolosi nella colonia antischiavista di Gesira ad appena 40 anni.

Un comboniano colto e un buon oratore. Animato dal desiderio di diffondere la verità di Cristo in Africa attraverso gli africani, scrive libri nella convinzione, in piena epoca coloniale, di dover far conoscere agli europei la reale condizione «della razza nera» e il suo «valore» originale e paritario.

«La civilizzazione e la cristianizzazione dell’Africa: ecco il grande problema di oggi. In qualità di figlio del deserto, ora missionario, ho giudicato mio stretto dovere esprimere pubblicamente il mio parere per allontanare le stravaganti opinione che si hanno della razza nera…». Parole redatte alla fine del XIX secolo ma che nel XXI conservano appieno la loro forza profetica. Sono tratte da uno dei tanti scritti inediti o misconosciuti che un libro di Giacomo Ghedini ha il merito di farci conoscere insieme alla straordinaria figura del loro autore. Il volume pubblicato da Studium (pagine 349, euro 26), frutto di un’intensa tesi di dottorato in Storia della Chiesa, si intitola Da schiavo a missionario. Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900).

Sono tanti gli aspetti focali di questa figura e tante le riflessioni che se ne possono trarre, a cominciare dalla precocità in senso storico con la quale da africano giunge alla convinzione di dover ingaggiare una battaglia culturale per dare la giusta visibilità alle ragioni del suo popolo, smontando uno per uno tutti i pregiudizi razziali. La stessa convinzione di dover lavorare per aprire una strada autenticamente e autonomamente africana al cristianesimo è di stringente attualità.

Siamo di fronte a un uomo davvero capace di farsi ponte, con lucidità, fra orizzonti culturali distanti (Africa ed Europa, conflittualità tribali, etniche e religiose) alle soglie di un secolo che li vedrà invece divergere sanguinosamente. «Tutto il male che corrode oggi la povera Nigrizia proviene da doppio fronte: dalle discordie che regnano fra tribù e tribù e dalla schiavitù. Il primo non potrà essere superato se non quando sarà tolto il secondo. La schiavitù è l’ultimo e il più grave ostacolo alla civilizzazione della razza nera», scrive Sorur nel 1889 in Che cosa sono i negri. E noi oggi ben sappiamo quante sono le schiavitù (fisiche, morali, religiose, politiche, economiche) che sottomettono e soffocano i popoli africani.

Quando parla di civilizzazione, padre Daniele Sorur fa aperto riferimento a una civilizzazione cristiana nel senso autentico della verità di Cristo che libera da tutte le schiavitù e ci fa fratelli nella sua e comune umanità. E se un parallelo si può fare con Bakhita, nella comunanza di sentimento europeo e africano, è proprio in questo sguardo fiducioso verso gli uomini; in questa apertura senza infingimenti al dialogo e alla relazione, che se per la santa canossiana nascono dal totale affidamento alla Misericordia divina, per il missionario comboniano, sembrano piuttosto sorgere dal pieno discernimento della cultura di verità che è nel Vangelo, fonte dalla quale si può attingere per la crescita umana e spirituale di tutti i popoli.




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