venerdì 9 marzo 2018
Legati nella vita e nel lavoro, lui nipote di Giacomo Matteotti fin da piccolo respirò la cultura antifascista e fu impegnato nella resistenza. Parola e immagine uniti da una utopia sociale
Albe e Lica Steiner

Albe e Lica Steiner

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Era nipote di Giacomo Matteotti, aveva 11 anni quando lo zio venne assassinato. Si può ben capire perché Alberto Steiner, Albe, sia cresciuto e si sia formato in un alveo di sinistra nutrendosi di antifascismo. Fu un vero imprinting, all’interno di una famiglia cattolica, dove il padre era di origini boeme e la madre, Fosca Titta, era sorella della cantante lirica Titta Russo e di Velia, moglie di Matteotti. Il giovane Alberto a 11 anni disegna un orrido faccione e lo appende nell’ingresso di casa con la scritta “Abbasso Mussolini, gran capo degli assassini”. È l’inizio di una esistenza fondata su principi etici che guidarono Steiner fino alla morte nel 1974. Italo Calvino scrisse che «per Albe il piacere dell’invenzione formale e il senso globale della trasformazione della società non erano mai separati». Fu designer e uno dei padri della grafica editoriale e pubblicitaria moderna. Nella concezione etica di Steiner un segno doveva corrispondere a un pensiero contenuto a volte solo in uno slogan, parola e immagine incontrarsi in una forma dal nucleo significante: l’emancipazione dell’uomo da tante servitù, sociali ed economiche, ereditate. La mostra dedicata a lui e alla compagna di vita e di lavoro Lica, dopo aver fatto tappa in alcune sedi italiane è da poco aperta al Mar di Ravenna (fino al 2 aprile). Era nata per celebrare il 70° della Liberazione dal nazifascismo, si comprende dunque perché il catalogo, edito da Corraini (che ha pubblicato anche altri volumi sui due, a cura della figlia Anna), evochi nel sottotitolo i “grafici partigiani”, pur spingendosi poi fino ai primi anni Settanta. Fu dunque naturale che Albe e Lica entrassero nella Resistenza: oltre a fotografie e disegni di viaggio, dipinti nello stilema delle avanguardie, quaderni di lavoro con impaginazioni fotografiche, prospettive d’architettura fine anni Trenta e inizio Quaranta, sono esposti anche manifesti e opuscoli di marcata lotta politica al fascismo.

Quindi gli ideali etici ed estetici, fusi nella ricerca di modi nuovi per la comunicazione grafica e visiva: oggi guardiamo queste opere non soltanto con interesse ma anche con la nostalgia di un sodalizio fra vita e arte nel segno del cambiamento dei rapporti sociali. Se ne sente la mancanza, calati come siamo nella cultura dell’efficienza, della programmazione, della tecnologia pervasiva e surrogatoria, nel senso che sostituisce l’umano senza essere veramente umana, perché anzi vedrebbe di buon grado l’esautorazione dell’uomo nelle decisioni che riguardano la sua vita. Gli anni della guerra e del fascismo vedono Albe già è inserito nel giro degli intellettuali milanesi. Giuseppe Pagano, direttore di “Casabella” con Edoardo Persico, lo chiama a collaborare per il volume Fotografiadell’editoriale Domus.

In una lettera del 1943, mentre è al fronte, Pagano scrive a Steiner: «Per la collaborazione a questo lavoro avrai 10.000 lire». Se in quegli anni gli italiani sognavano le «mille lire al mese», quella cifra non banale è il segno che Steiner era già un grafico rispettato e se guardiamo altri lavori di quegli anni (il depliant per il Palazzo del ghiaccio del 1940, o la grafica per la casa editrice Rosa e Ballo del 1944) sentiamo il peso che aveva su Steiner la sua formazione sulla grafica Bauhaus, ma con quella tenace volontà di rendere l’immagine e il testo due forme dinamiche reciproche. Una sorta di “visibile parlare”. Gli anni postbellici, quelli della ricostruzione, sono molto fecondi per Albe e Lica: realizzano, tra l’altro, la grafica della rivista diVittorini “Il Politecnico” che nasce il 25 settembre 1945 e il cui editoriale “Una nuova cultura” comincia con queste parole programmatiche: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini»; sono di quel periodo anche la grafica di periodici di settore come “Interiors”, “Edilizia moderna”, “Costruzioni”, quest’ultima secondo uno stile spartano ma armonico, che non raggiunge l’eleganza astratta e quasi costruttivista della grafica di Persico per “Casabella” ma mostra una essenzialità in cui non è difficile cogliere il fondamento etico. È anche l’epoca dell’esperienza con Hannes Meyer in Messico dove la memoria del Bauhaus si diluisce nel Taller de Grafica Popular, che lavora molto sul tema delle scuole sia come architettura sia come grafica di comunicazione, ma anche sulla pubblicistica politica e sociale.

Aveva perfettamente ragione Steiner negli anni Cinquanta a notare che «il progresso tecnico determina la forma nella produzione industriale ». C’era ancora in gioco l’utopia di un design capace di trasformare la società e i rapporti sociali: qualità per tutti, non soltanto quantità. Idea sanissima, ma il meccanismo del consumo già nei primi anni Sessanta, col boom, aveva sepolto questa speranza e il primo a prenderne atto fu il teorico della forza sociale del design, Giulio Carlo Argan, che ammise l’impossibilità di realizzare questo disegno in una società dominata dal capitale. Steiner però ci crede nonostante tutto, e questa utopia va a suo merito. Nel 1963 disegna il logo e l’immagine integrata della Coop (che Bob Noorda nel 1986 aggiornerà senza modificarlo troppo): il carattere è sottile e tondo, le lettere sono legate come in un unico tratto continuo: un solo nome e un solo corpo (sociale) a esprimere l’idea cooperativa; il logo ricorda vagamente la sigla dell’Urss (CCCP) e il richiamo non credo fosse vago, evocava a suo modo l’ideale socialista, con meno pesantezza e questo poteva essere anche la critica implicita di Steiner a un’idea che in Urss aveva fatto milioni di morti. È in quegli anni che si gioca la scommessa di un paese nuovo, più giusto, più uguale nei rapporti sociali, più equo e unito.

Ma la vera rivoluzione doveva nascere negli anni Cinquanta, quando il design italiano (e Steiner al suo interno) rappresentava davvero il miracolo di una creatività libera e ricca d’immaginazione che precorre il “Made in Italy” senza le falsità estetiche dei brand attuali. Il sogno, infatti, sfumò con la riduzione di questa scommessa al benessere diffuso. Steiner dà voce a questa illusione: nel 1953 realizza l’estetica coordinata della Rinascente e l’immagine della mostra “L’estetica nel prodotto”; promuove e sostiene nel 1954 il premio Compasso d’oro del quale realizza il marchio; è tra i promotori dell’Adi nel 1958 che erediterà il premio e lo rilancerà; lavora per la pubblicità di Pirelli, Arflex, Omo, Vetrotex; lavora all’immagine della Radio nel 1951 («l’obiettivo – dirà Lica nel 1990 – era quello di creare un’immagine che suscitasse l’idea delle notizie che arrivano dal mondo intero»); nel 1957 lavora anche per la nascente televisione della Rai. Sarà l’art director della comunicazione per la grande mostra di Picasso a Roma e Milano nel 1953; e poi di Feltrinelli per un decennio, tra il 1955 e il 1965, quello ruggente dei grandi successi letterari e saggistici, dal Gattopardo al Dottor Zivago, dalla Promessadi Dürrenmatt ai romanzi del ciclo di Milano di Testori, alla collana dei grandi tomi squadrati che pubblica gli scritti d’arte dei grandi del Novecento, Klee, Sironi, Kandinskij, Carrà, il Bauhaus. È dunque impossibile scindere l’intellettuale che combatte per una società migliore dal designer che svolge una professione al servizio di realtà commerciali o pubblicitarie. Oggi figure dal carattere così marcato mancano, il mondo naturalmente è più complicato (oltre che complesso) e le utopie sono scomparse dalle nostre rappresentazioni del futuro, vince la protesta, il populismo, l’indignazione, ma questo è lontanissimo dall’impegno etico di intellettuali come Steiner.

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