sabato 10 ottobre 2015
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Il Premio internazionale di Cultura cattolica sarà consegnato alla sindonologa Emanuela Marinelli (nella foto) il 23 ottobre alle 20.30, in una solenne cerimonia nel Teatro Remondini di Bassano del Grappa. La professoressa Marinelli, romana, si occupa della Sindone da 38 anni e sull’argomento ha scritto 17 libri e tenuto centinaia di conferenze in vari Paesi del mondo; è stata anche coordinatrice del Comitato organizzatore del congresso mondiale «Sindone 2000» ad Orvieto. Il riconoscimento bassanese, gestito dalla locale Scuola di cultura cattolica e giunto alla XXXIII edizione, è andato tra gli altri a personalità come Joseph Ratzinger, Krysztof Zanussi, Angelo Scola, Riccardo Muti, Camillo Ruini, Ugo Amaldi, Michael Novak, Divo Barsotti, Cornelio Fabro, Augusto Del Noce...Nel 1977 il botanico svizzero Max Frei rese noti i risultati di una ricerca sui pollini di cui aveva trovato traccia sulla Sindone: su 58 tipi, 38 appartenevano a piante della Palestina che non esistono in Europa. I più frequenti erano pollini identici a quelli che si trovano nei sedimenti del lago di Genezaret. In Emanuela Marinelli, allora giovane laureata in Scienze naturali e in Geologia alla «Sapienza» di Roma, la scoperta suscitò un interesse profondo. Pollini dalla Palestina, come una firma sulla reliquia che dal 1933 non veniva esposta al pubblico. La Marinelli bussò al Centro romano di Sindonologia di monsignor Giulio Ricci, cominciò a studiare. Apprese che in corrispondenza del tallone dello sconosciuto avvolto nel telo c’erano tracce di un tipo di aragonite, identico a quello che si trova nelle grotte di Gerusalemme.  Ed Emanuela Marinelli si innamorò della Sindone. Amore tenace: quasi quarant’anni di studio. E 17 libri, centinaia di articoli, migliaia di conferenze, dall’Indonesia al Kazakistan al Burkina Faso: lunghi viaggi, talvolta pericolosi, sempre con una copia della Sindone piegata nella valigia, per andare a spiegare, in capo al mondo. Per questa appassionata attività di divulgazione la professoressa riceve il 23 ottobre prossimo a Bassano del Grappa il prestigioso Premio internazionale della Cultura Cattolica. La incontriamo in un caffè di Roma. Giovanile, vivace, da come parla è evidente che l’innamoramento per la Sindone continua, da quel lontano giorno in cui, dice, davanti a una sua copia si ritrovò senza parole: «Mi parve – dice – un Vangelo scritto col sangue». Ma venne il 1988, l’anno del famoso test effettuato con il carbonio 14 su un frammento del telo: la Sindone, almeno così fu detto, alla prova della scienza. Dai laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo arrivò il verdetto: il lenzuolo risaliva al Medio Evo. Un esito tranchant, che sembrò spazzare via secoli di speranze di avere, ancora, una traccia materiale del passaggio di Cristo sulla terra. Quasi tutti a quel punto, come scrisse Vittorio Messori, si inchinarono, devoti, a «san carbonio 14».  Non proprio tutti, però. Emanuela Marinelli: «L’angolo del telo sottoposto all’analisi risultò essere stato manipolato, rammendato, inquinato da funghi e batteri. Se il campione era inquinato, la datazione poteva riferirsi alle tracce lasciate da polveri e manipolazioni». Lo sostennero poi, del resto, studiosi illustri come Gove. L’ombra che la scienza sembrava avere dissipato, in realtà rimaneva. Benché, dice la Marinelli, «si avvertisse una volontà di negare la storicità della Sindone, a prescindere da ogni elemento emerso dalla ricerca. Una volontà ideologica di negare: forse perché, come disse il cardinale Biffi, se la Sindone è falsa per un cristiano non cambia niente, ma se la Sindone è vera, per gli atei cambiano tante cose…». La 'verità' assoluta sentenziata dal carbonio 14 fu per la Marinelli, che si era laureata in Scienze naturali con una tesi sulla radioattività dei minerali di uranio, una sfida a studiare ancora. Fu allora che pubblicò il primo dei suoi 17 libri, vagliando ogni ricerca, ogni parola pronunciata sulla Sindone. Perché ancora molto, secondo lei, non era chiaro. «Il tessuto – dice – mostra una cimosa e una cucitura particolari, ed è assimilabile ai tessuti trovati anni fa a Masada, e risalenti al I secolo dopo Cristo. Le analisi provano che in corrispondenza delle ferite c’è sangue; altre analisi dimostrano che un corpo giacque nel telo per 36/40 ore. Ma non c’è traccia del trascinamento che dovrebbe apparire, se il cadavere fosse stato rimosso».  «Infatti sa quali studiosi, anche se atei e 'negazionisti', ammettono che nella Sindone è stato avvolto un uomo? I medici e gli artisti: i primi perché riconoscono che quello è sangue, i secondi perché capiscono che quella non è pittura. L’esperimento più significativo, però, è stato quello condotto in Italia, all’Enea. Un laser a eccimeri è stato puntato su un tessuto, e l’effetto ottenuto è quanto di più simile abbiamo all’immagine della Sindone. La stoffa risulta ingiallita, come fosse stata attraversata da un fortissima luce».  La fede non influisce sui suoi studi? chiediamo. Lei, pacata: «No. I pollini, l’aragonite, la cimosa del tessuto, sono tutti elementi concreti. Oggi si può affermare che la prova del carbonio 14 non basta più per smentire la autenticità della Sindone». È possibile, secondo lei, svolgere nuovi test attendibili? «Temo di no, perché l’incendio cui il telo scampò chiuso in una cassetta, nel 1532 a Chambéry, può averlo comunque contaminato e ciò altererebbe i risultati dell’indagine con il carbonio». La Sindone, dunque, cos’è per lei? «Un’immagine ancora non spiegabile, che ci lascia sulla soglia di un enigma. Come scrisse Arpino: 'In un pianeta che è rigonfio di monumenti, piramidi, colossei, archi trionfali, statue equestri, templi incontaminati o corrosi dalle muffe e dall’abbandono, in questo pianeta solo una pezza di lino, con quell’Orma, conserva il suo mistero'. Ma questa immagine, nella sua povertà, continua a chiamare gli uomini. La Sindone è icona della sofferenza umana. La gente, quando vado a parlarne, mi sta a ascoltare, ovunque: nelle regioni più lontane del mondo, nelle scuole, nelle carceri».  Ma una sera una donna anziana, finita la conferenza, si alzò dalla platea. Era una donna modesta del Sud Italia, con le mani sciupate dal lavoro casalingo. «Professoressa – disse –, io non ho capito molto del carbonio 14, però una cosa ho capito. Ho capito che noi dobbiamo diventare come la Sindone, dobbiamo stamparci dentro l’immagine di quel volto sofferente, per portarlo a quelli che incontriamo». E quella volta fu la professoressa, commossa, a restare muta.
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