giovedì 18 ottobre 2018
Siamo sempre meno capaci di tacere e di porci in ascolto. Era specifico della fiaba e della poesia antica, e necessario verso la Sacra Scrittura. Ora Le Breton ci spiega come ritrovare questa virtù
“Il grande silenzio”, documentario di Philip Gröning (2005)

“Il grande silenzio”, documentario di Philip Gröning (2005)

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In una pagina memorabile ma poco nota, scritta nel 1950, Romano Guardini criticava l’uso troppo invadente dei foglietti durante la Messa. Certo, ammetteva il teologo, i fedeli partecipano maggiormente alla funzione, recitando ad alta voce alcune parti, e possono comprendere meglio le Sacre Scritture, ma nel gesto rituale scompare una dimensione essenziale, quella dell’ascolto. «Non si poteva escogitare – rifletteva Guardini – qualche cosa di meglio per significare un’azione che vuol essere eminentemente spirituale? Vi è un che di stonato. La lettura solenne richiede di essere ascoltata. Questo atteggiamento innaturale è venuto dalla nostra educazione libraria. A essa dobbiamo la piaga per cui gli uomini leggono mentre dovrebbero stare in ascolto. È così che la fiaba è morta ed è così che la poesia ha perduto la sua forza migliore. Poiché tutte le parole belle, sagge, intime, solenni vogliono esser comprese, non lette». Discorso paradossale, dirà qualcuno, ma l’intento del pensatore italotedesco era solo quello di richiamare al valore del silenzio e dell’ascolto appunto, sempre più dimenticati a favore del rumore e della chiacchiera. L’aveva rilevato anche Madeleine Delbrel: «Il silenzio è qualche volta tacere, ma il silenzio è sempre ascoltare».

Una critica serrata alla postmodernità giunge ora dall’antropologo David Le Breton nel saggio Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo (Cortina, pagine 278, euro 24), un vero e proprio excursus che spazia dalla filosofia alla letteratura, senza naturalmente ignorare le tradizioni spirituali e religiose. Per arrivare a giudizi severi verso «le imprese di liquidazione del silenzio» che prosperano soprattutto nella civiltà occidentale, nelle nostre città che aggiungono di volta in volta nuove imposizioni sonore, quali le musiche di sottofondo nelle stazioni della metropolitana, nei centri commerciali, nei bar e nei ristoranti, nelle halle degli alberghi. Per chi cammina nelle nostre strade ed entra in un negozio qualsiasi, è difficile se non impossibile trovare un’atmosfera silenziosa: si viene ovunque sommersi da una produzione permanente di rumori che perlopiù nessuno ascolta, anzi spesso ci infastidisce. Ma anche nelle nostre case raramente ci capita di evitare i rumori: che siano la televisione accesa o le conversazioni dei vicini, o il traffico che proviene dalla strada, tutto sembra mettere in discussione il nostro desiderio di pace e tranquillità. E se ci rechiamo in montagna o in campagna, al di fuori di contesti abitati, l’improvvisa scomparsa del silenzio ci lascia spesso sgomenti. Quasi fa paura.

A tutto ciò si aggiunge il perenne flusso di parole o di suoni che ci impone la società della comunicazione, la quale ci obbliga a non essere mai soli con le sue reti sociali e i suoi smartphone che ci collegano al resto del mondo. «Il solo silenzio che la comunicazione conosca – scrive Le Breton – è quello del guasto, della défaillance della macchina, dell’arresto di trasmissione. È cessazione di tecnicità, più che emergenza di un’interiorità. Il silenzio diviene allora reperto archeologico. Al tempo stesso però, il silenzio risuona come una nostalgia, fa appello al desiderio di un ascolto senza fretta del fruscio del mondo. L’ubriacatura di parole rende invidiabile il riposo, il godimento di pensare. E il silenzio, da rimosso che era, acquista un valore infinito». Non c’è contraddizione tra questi sentimenti. Il contesto rumoroso delle nostre metropoli ha fatto crescere negli ultimi decenni una consapevolezza dei guasti dell’inquinamento acustico. Nelle città aumentano le zone pedonali ove le automobili col loro chiasso non possono accedere; i rumori di un cantiere vengono attenuati riducendo l’impatto sugli abitanti del quartiere; i nuovi centri urbanistici prevedono sempre più spazi riservati al silenzio.

Ai “non luoghi” degli aeroporti, delle stazioni, dei centri commerciali, c’è chi preferisce le isole del silenzio in cui possiamo sfuggire dal rumore e sperimentare il raccoglimento: i giardini pubblici, i luoghi di culto, persino i cimiteri diventano una possibilità di ritiro dal tumulto che ci circonda. Dal Père Lachaise di Parigi al cimitero Ebraico di Praga al Monumentale di Milano, visitare i camposanti diventa un’esperienza che ci rinvigorisce. Così come trascorrere una settimana di riposo in un monastero ci aiuta a ritrovare una dimensione nuova e a restituire qualità alla nostra vita. «La punteggiatura del silenzio – dice ancora Le Breton – gustata in momenti diversi dell’esistenza trasferendosi in campagna o in un monastero, nel deserto o in una foresta oppure, più semplicemente, sostando in un giardino o in un parco, appare un atto ricostitutivo, un necessario tempo di riposo, prima di ritrovare il rumore». Ma dove ritrovare le fonti che ci possono accompagnare in questa riscoperta del silenzio? Certamente nella letteratura: il libro fa diversi esempi, da Bartleby lo scrivano di Melville, singolare personaggio che rifiuta il lavoro e sceglie l’esilio dalla parola, a Il silenzio del mare di Vercors, ove una famiglia la cui casa è stata occupata dai nazisti rifiuta di parlare con loro. Poi c’è Kafka che nelle sue Confessioni descrive infastidito il rumoreggiare della vita familiare nell’appartamento in cui vive, o Il giovane Holden di Salinger, che vuole fingersi sordomuto per risparmiarsi tutte le chiacchiere inutili che deve sentire.

Ma come detto è nelle religioni, soprattutto nella tradizione ebraico-cristiana, che si ritrova una costante apologia del silenzio. A partire da Qohèlet, che ci ricorda che «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare», per arrivare ai monaci e ai mistici. Sono numerosissime le citazioni portate da Le Breton a sostegno delle sue tesi. Ecco Isacco di Ninive: «Ama il silenzio: ti reca un frutto che la lingua non è in grado di descrivere». O Gregorio di Nazanzio, che di fronte all’immensità di Dio chiede di elevare «un inno di silenzio». I Padri del deserto poi sono un modello della scelta a favore del silenzio: il deserto esteriore diviene la via per il deserto interiore. La solitudine, il rifiuto del mondo con le sue seduzioni è una prova di verità per l’eremita, lo mette faccia a faccia con Dio e spesso con il demonio. Tutto il monachesimo, anche quello cenobitico, esprime una vita fatta di silenzi, dai pasti consumati insieme senza pronunciare una parola a una disciplina complessiva che privilegia l’astensione da ogni discorso. Così, all’elenco dei sette peccati capitali, il predicatore domenicano Guillaume Peyraut ne aggiunge un ottavo: il peccato della lingua. Ed è celebre la pagina delle Confessioni in cui Agostino descrive Ambrogio immerso nella lettura silenziosa: nell’antichità infatti la lettura anche individuale veniva sempre fatta a voce alta. «Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la lingua e la voce riposavano. Sovente lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente».

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