sabato 7 maggio 2022
Poca tutela e molto sfruttamento, in patria e nelle colonie. Mentre guerra del grano, bonifiche e autarchia energetica furono i mezzi con i quali il regime portò avanti guerra e razzismo
Mussolini impegnato nella battagli del grano in una immagine di propaganda

Mussolini impegnato nella battagli del grano in una immagine di propaganda - WikiCommons

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Un Benito Mussolini vestito di tutto punto e con la bombetta in testa si china ad accarezzare una leonessa in gabbia allo zoo di Roma. Quest’immagine condensa in sé quello che gli autori de La natura del Duce. Storia ambientale del fascismo (Einaudi, pagine 196, euro 24,00) chiamano «ecologia politica del fascismo». Vale a dire l’insieme di rappresentazioni e pratiche con cui il regime cercò di condurre il suo discorso politico. «Non ci interessa capire quanti ettari di terreno fossero riservati a parco, né quanti alberi siano stati piantati durante il regime; invece vogliamo indagare come il regime abbia prodotto delle formazioni socioecologiche, ovvero degli ecosistemi fatti di narrative e piante, di memorie e orsi, di leoni addomesticati e popolazioni selvagge da assoggettare », la dichiarazione programmatica dei tre autori. Che sono rispettivamente - a evidenziare la multidisciplinarietà dell’approccio - ricercatori e docenti di Studi sul Mediterraneo al Cnr, Marco Armiero, di Storia politica all’Università di Utrecht. Roberta Biasillo e di Storia dell’ambiente e della scienza alla Humboldt Universität di Berlino, Wilko Graf von Hardenberg.

Il regime fascista fu dunque contrariamente a quanto alcuni studiosi hanno affermato, facendo un confronto con il nazismo - molto attento all’ecologia. Il pericolo, però, dal quale subito gli autori mettono in guardia, è di leggere l’ambientalismo fascista con gli occhi di oggi: salvaguardia della natura o addirittura decrescita felice e 'sostenibilità' ante litteram. Tutt’altro. Il progetto mussoliniano mirava a rendere in dieci anni il Paese «irriconoscibile », tramite rimboschimenti e bonifiche, ma anche ferrovie, strade e porti.

Niente a che vedere, dunque, con l’amore per la natura selvaggia la wilderness tipicamante americano. Quello del fascismo fu, per parafrasare la celebre frase di un altro leader totalitario del Novecento, Lenin, una combinato di "natura più elettrificazione". Non a caso la leonessa in gabbia si chiamava Italia e la sua domesticazione faceva parte di quell’armamentario che vede da un lato la sbandierata sensibilità personale di Mussolini per la natura, coltivata sin dall’infanzia. Ma anche la volontà paternalistica di proteggerla e l’idea di rigenerarla, ovvero «l’immagine del duce che accarezza Italia dietro le sbarre rivela l’intreccio di colonialità, natura e oppressione che sta dentro le narrative fasciste sulla natura», commentano gli autori.

Una narrazione, dunque, basata sul conflitto. Tra mondo rurale e città, innanzitutto. Ancor più la retorica bellica venne usata, non a caso, sia per la 'Battaglia del grano' si per quella alle paludi attraverso le bonifiche integrali. Tutto ciò convergeva nello sforzo per l’autarchia che si concretizzò nella politiche agricole, forestali ed energetiche. Ed aveva come unico obiettivo la guerra.

Il percorso di Armiero, Biasillo e von Hardenberg parte dalle biografie del Duce di Margherita Sarfatti e della moglie Rachele. Dalla prima emerge - anche per sottolinearne la scarsa religiosità sin da ragazzo - un Mussolini quasi panteista, amante di ruscelli e uccelli (soprattutto gufi) sconfinante nel realismo magico nella frequentazione con una fattucchiera romagnola. Lo stesso Benito più volte si riferiva alla propria «animalità» (che si esplicitava anche nella sua notoria bulimia sessuale). Sul versante domestico, invece a gufi e leonesse subentrava il più domestico zoo di villa Torlonia fatto di cavalli, cani e gatti con un Mussolini amorevole padre di famiglia.

Altra retorica fu quella delle battaglie del grano e della bonifiche, funzionali alla propaganda del regime. Della schizofrenia tra “ambientalismo” e modernizzazione fu emblema la figura di Arnaldo Mussolini, paladino del ruralismo, ma antropizzato, funzionale al progetto bio-sociale dell’uomo nuovo fascista. Gli autori sottolineano come il grosso della bonifiche era già stato quasi del tutto realizzato prima del fascismo, che ci mise sopra il cappello. E anche nella tutela dei parchi giocò più la propaganda che una vera e propria idea di tutela. Nei due che il fascismo ereditò dall’Italia liberale, Gran Paradiso e Abruzzo (entrambi ex riserve di caccia reali) la gestione della Milizia forestale fu fallimentare. Sorsero dissidi tra comunità locali e autorità e si intensificò il fenomeno del bracconaggio di cui fecero le spese le specie simbolo dei due parchi: stambecchi e orsi. Non meglio andò con i parchi istituiti dal regime, Circeo e Stelvio. Il primo, lungi dall’essere la preservazione simbolica dell’ambiente preesistente alla bonifica delle Paludi Pontine, fu «un esempio della retorica del regime riguardo al complesso intreccio di memoria, paesaggio e razza».

Fu il «palcoscenico» in cui venne artificialmente fusi un paesaggio agrario «pseudoarcaico» la tutela di reperti archeologici di epoca romana e la preservazione di uno specimen di macchia mediterranea, tutt’altro che lasciata alla natura. Sullo Stelvio, poi, si fusero (come nella toponomastica pontina) la memoria della Grande Guerra e la prospettiva turistica, caldeggiata da associazioni di settore. Siamo di nuovo alla modernizzazione, sulla quale i tre autori puntano il faro, facendo emergere dallo sfondo due oggetti simbolo: la diga e il motore gasogeno.

Sull’energia idroelettrica fu pesante il ruolo della lobby di settore (di cui fu esponente di spicco il conte Giuseppe Volpi di Misurata). La risistemazione della montagna e la creazione di boschi e invasi fu funzionale a quel progetto. E anche qui ci furono conflitti tra industria e comunità montana. Soprattutto a causa di numerosi incidenti e crolli di bacini artificiali, di cui il più importante fu quello di Gleno, nel Bresciano, che causò almeno 350 morti. Stesso copione ad Arsia, in Istria, che pagò lo sforzo nazionale nell’estrazione del carbone con 185 vittime nel più grave incidente minerario della storia italiana. Il legname dei boschi, poi doveva servire ad alimentare il motore a gasogeno delle auto. Un’evidente contraddizione con la tutela dei boschi per un progetto che ebbe sponsor e detrattori. Ma che doveva servire all’indipendenza energetica di un Paese sfavorito dalla natura quanto a risorse.

Gli ultimi due capitoli sono dedicati alle devastazioni causate nelle colonie dal progetto di sfruttamento minerario e di creare uno spazio per espandere l’agricoltura europea attraverso il popolamento bianco. Infine, alle ancora controverse sopravvivenze del paesaggio fascista nell’Italia repubblicana, emblema delle quali è la scritta Dux sul Monte Giano, nel Reatino. Insomma, l’«ecologia politica fascista» fu una serie di «specchi deformanti » dove «ci sembra di vedere una montagna e invece era una guerra, ci appare una foresta e invece era un motore, conserviamo un monumento al lavoro e invece era all’Impero». E la leonessa in gabbia? «Era un’intera nazione. O forse solo un gattino di Villa Torlonia».

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