sabato 1 dicembre 2018
Per il poeta indiano-americano «l’anima è un’impossibilità, date le leggi della scienza, eppure resta cruciale. Proprio come i numeri immaginari della matematica»
Vijay Seshadri è nato a Bangalore nel 1954 ed è cresciuto in Ohio

Vijay Seshadri è nato a Bangalore nel 1954 ed è cresciuto in Ohio

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È stato il primo asioamericano ad aggiudicarsi il più importante premio statunitense per la poesia: il Pulitzer, assegnato, come di consueto, dalla Columbia University nel 2014 all’autore di origine indiana Vijay Seshadri per la silloge 3 Sections (Graywolf Press, editore no profit). Seshadri lascia prestissimo l’India, Bangalore per la precisione, e si trasferisce a Columbus, in Ohio, con la famiglia. Dopo rocambolesche avventure shelleiane e una carrellata invidiabile di lavori (camionista, pescatore, tagliaboschi) disseminati in varie città degli States, a fronte della vocazione scientifica e universitaria paterna, diviene redattore del New Yorker. Ammirato saggista, attualmente dirige il corso magistrale di “No-fiction writing” al Sarah Lawrence College di Yonkers. Nicola D’Ugo ha notato come la poetica di Seshadri manifesti una vena «riflessiva, talvolta truce, talaltra mite e toccante, a tratti apparentemente scanzonata, benché l’andante leggerezza sia poi riguadagnata all’epifania, al motto dei versi finali ». Senza indorare la pillola, si può aggiungere che i temi principali dell’opera di Seshadri ruotano attorno alla percezione della perdita, nel potenziale valore di pienezza e al contempo nella cruda realtà, come avviene in Disappearances, poema «cataclismatico » sulla recente storia americana – l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy – che riconsegna al canone letterario una testimonianza assai viva di epica giornalistica, non lontana dalle “rime aspre” dei reportage lirici di Tony Harrison in ex Jugoslavia. Ma c’è anche qualcosa di springsteeniano (a sua volta mutuato da Steinbeck): treni merci diretti a ovest, vagabondi – i losers di Thunder Road –, il riscatto di una società senza più sogni.

Quali sono i principali modelli della sua poesia?

«Le mie idee sulle poesie e su come farle sono cambiate così tanto nel corso degli anni che non so come caratterizzare internamente la mia opera. Esternamente, per un osservatore neutrale con una media conoscenza della letteratura americana, penso che il mio lavoro sembrerebbe scaturito molto dalla tradizione centrale della lirica statunitense, quella che percorre gli autori ispirati dal New Criticism attraverso Robert Lowell ed Elizabeth Bishop e attraverso John Ashbery, Mark Strand. Auden ha sempre avuto, inoltre, una grande influenza su di me».

Cosa intende esattamente nella poesia Imaginary number, in cui l’anima è correlata alla radice quadrata di meno 1?

«Non so se riesco a parafrasare il significato della lirica, sebbene abbia significato, significato implicito. Posso dare un’idea della sua tensione progressiva, comunque. Il poema inizia con una figurazione apocalittica, un’immagine di ciò che rimane quando l’universo finisce. Una montagna immaginaria. Usando la parola “immaginaria”, beninteso, non sto facendo affermazioni sullo status ontologico delle cose – per i poeti l’immaginario è reale come qualsiasi altra cosa. E su questa montagna immaginaria, l’anima umana è comparata al numero immaginario, che è cruciale per molti dei formalismi della matematica (senza i quali non avremmo cose come sistemi elettrici, computer, ecc.), ma che tuttavia è impossibile, date le leggi dell’aritmetica, così come l’anima è un’impossibilità date le leggi della scienza. La poesia fa, infine, una distinzione tra coscienza e spirito, che ritengo sia una distinzione originale – almeno non ho mai letto o sentito parlare di una cosa del genere – e interessante su cui riflettere».

In Rereading riscrive la vita di David Copperfield. Vuole rendere il personaggio dickensiano più accorto?

«No, è un testo descrittivo, non prescrittivo. Ho riletto il libro e ne ho scritto una poesia. Mi hanno colpito le ingiustizie che certa gente subisce per il compiacimento altrui, così come lo rappresenta Dickens, e sono rimasto meravigliato dal fatto che l’autore stesso sia implicato in quel compiacimento. Nella poesia, comunque, l’episodio legato ai Peggoty – la famiglia che, nel romanzo, è portata alla disfatta a causa del rapporto con David Copperfield – lascia intravedere persone che lavorano a contatto con la natura e che incontrano in Copperfield qualcuno che, per quanto segnato dagli affanni, appartiene a una classe abbiente, e tutti abbiamo visto quale parte tende a soffrire quando tali gruppi entrano in contatto l’uno con l’altro...».

Ha lasciato l’India all’età di cinque anni. In che modo la distanza dal Paese d’origine ha influenzato la sua vita?

«Sono uno degli innumerevoli individui sradicati, nel ventesimo secolo, dai loro luoghi di nascita. Nel mio caso tutto è stato molto più delicato di quanto non sia stato per tanti altri, ma nessuna dislocazione, come quella di spostarsi dall’India al Nord America alla fine degli anni Cinquanta, può avvenire in maniera davvero “gentile”. Penso che, grazie a ciò, ho capito assai presto nella mia vita la natura provvisoria dell’esperienza umana, sono arrivato a scorgerla prematuramente nella sua dimensione esistenziale. Intuizione che, certo, se può essere traumatica in molti modi, è anche un buon pretesto per diventare artista».

Nel 1989, invece, è stato in Pakistan per studiare la poesia urdu.

«Ho vissuto nel purani shehr, il vecchio quartiere mughal della città di Lahore, e sono entrato in contatto con quel mondo premoderno. Era bellissimo lì, e la famiglia nella cui casa ho affittato una stanza era meravigliosa, molto ospitale con me. Arrivati dall’India dopo la Partizione, erano felici di avere un indiano che viveva in mezzo a loro. Sentivamo reciprocamente che, in minima parte, tra noi almeno la ferita della Partizione era stata risanata. Il 1989 era un anno di turbolenze per il Pakistan e fu un insegnamento profondo osservare e sperimentare sulla mia pelle quell’ambiente politico, essendo cresciuto nel pacifico Midwest americano, e avendo visto poco del mondo fuori dall’America e dall’Europa, oltre i miei primi anni in India».

In una lirica di 3 Sections parla degli esagerati sistemi di sorveglianza dell’era Obama.

«Quella poesia, in realtà, fu scritta prima delle divulgazioni di Edward Snowden, il quale rivelò chiaramente la grande ondata di spionaggio del governo sui propri cittadini. Quindi, mi concedo un po’ di credito per prescienza politica. L’idea è arrivata, però, solo a seguito di una consapevolezza generale sulla tecnologia di sorveglianza. Siamo stati tutti abbastanza coscienti della presenza di tale tecnologia grazie ai film hollywoodiani, se non altro...».

E oggi, come si vive in America?

«Beh, l’America è in crisi ovviamente – una crisi di leadership che si sta verificando non solo ai vertici, ma quasi ovunque nelle istituzioni americane. Penso che questo momento sia un importante spartiacque storico per gli Stati Uniti, e devo ammettere che non sono in grado di offrire nemmeno la previsione più titubante su dove stiamo andando come Paese. Vivo qui da quando il generale Eisenhower era presidente e non ho mai visto cose così turbate e infelici. Se l’economia non fosse ottimale, almeno in superficie – ma chissà quanto a lungo durerà –, penso che saremmo in una condizione pericolosa sotto il profilo politico».

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