giovedì 20 dicembre 2018
Le interviste con lo storico Simsolo raccolte nel libro “C’era una volta il cinema”. Autoritratto completo del papà del western all’italiana morto nell’89. Il sogno sfumato del “romanzo” céliano
Sergio Leone (1929-1989)

Sergio Leone (1929-1989)

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«Nel 1913, mio padre ( Vincenzo Leone) ha realizzato il primo western italiano, La vampira indiana, in cui mia madre - (Bice Valerian) interpretava la parte di una pellerossa...». Così, Sergio Leone inizia la serie di interviste con lo storico del cinema Noël Simsolo. Confidenze d’autore che ora si possono leggere in un libro un’autentica strenna - C’era una volta il cinema (il Saggiatore. Pagine 213. Euro 24,00). Con la sua aria serafica, il barbone fulvo, candido, e il sigaro in bocca, qualche anno prima della sua fine precoce (avvenuta il 3 gennaio 1989, era nato nel ’29) il cineasta, padre del “western all’italiana”, si lasciava andare con il paziente saggista francese a riflessioni argute (ciniche) e a teneri amarcord, partendo da quelle origini di figlio d’arte. Vincenzo Leone, antifascista, allievo di Italo Zingarelli, proprietario terriero avellinese arrivato a Roma, da Napoli, per diventare regista. In locandina figurava con lo pseudonimo Roberto Roberti. «Per questo, per il mio primo western, in omaggio a mio padre ho scelto il nome di Bob Robertson, Robert, il figlio di Robert», racconta Leone con quel velo di nostalgia che ha permeato tutta la sua scarna eppure fantastica cinematografia (appena sette film da regista) che ne fa un maestro assoluto. Creatore, inconsapevole, di una scuola di seguaci dai nomi altisonanti, da Stanley Kubrick che disse «senza Sergio Leone non avrei mai potuto fare Arancia meccanicaa Sam Peckinpah che gli era debitore per la realizzazione de Il mucchio selvaggio.

Leone si forma all’accademia paterna con il quale debutta da aiuto regista, e attore («interpretavo un giovane soldato americano») nel 1945 in Il folle di Marechiaro. In pieno neorealismo e con una predilezione per Vittorio De Sica «il migliore di tutti», si segnala come enfant prodige della settima arte: «Ero il più giovane assistente alla regia d’Italia». Ma il vero tirocinio lo compie sul set di Mario Bonnard: «È stato lui, nel 1943, a realizzare il primo film neorealista, Campo de’ fiori, alla cui sceneggiatura aveva lavorato Fellini». E il nume felliniano è fondamentale per la sua “svolta” registica. Il giovane Sergio, attento osservatore di quell’Italia sbrindellata appena uscita dalla guerra, aveva in mente un soggetto, Viale glorioso che in pratica era lo stesso sogno di celluloide che Fellini aveva appena portato sul grande schermo: I vitelloni. Incassa il colpo, si tira su le maniche e comincia la dura, quanto proficua, gavetta. Un lavoro da “negro” come organizzatore di kolossal americani, sceneggiatore e cooregista per dei “peplum” fino all’esordio in proprio dietro alla macchina da presa con Il colosso di Rodi (1961). Inizio turbolento, in cui sperimenta le paturnie feroci degli attori viziati e viziosi dello star-system Usa, a cominciare dall’ostico John Derek, sostituito con il più affidabile Rory Calbourn, «il Cary Grant dei poveri». Da questo primo cast si comprendono le sue scelte future, stock di volti da lanciare o rilanciare. L’occhio sempre attento alla miglior resa finale del film e pronto a menare le mani se anche l’ultima delle comparse non avesse ragionato in funzione della squadra che aveva messo in campo, con fatica. Una certa agiatezza economica, raggiunta prima di aprire il ciclo del western all’italiana, gli permise di assecondare l’altra sua passione, quella di collezionista di opere d’arte. Acquista quadri di De Chirico e si innamora della casa del Gianicolo strappata a John Huston - dove andrà a vivere, colto da sindrome di Stendhal dinanzi a un’opera di Mario Mafai, «di scuola Romana, la stessa di Scipione». Dietro a quell’aspetto burbero, romanesco, si celava un intellettuale duro e puro dalle letture molto forti. Folgorato, quanto Kerouac, da quello che considerava il “Romanzo”: Viaggio al termine della notte di Céline. Avrebbe tanto desiderato farne un film, c’era anche il benestare della vedova di Céline e «Michel Audiard, prima di morire, mi aveva detto che avrebbe voluto scriverne l’adattamento ». Ma si autocensurò: «Essendo a mia volta un autore, in quanto cineasta, inconsciamente tradirei l’opera di partenza di Céline, facendone qualcosa di diverso. E non so se sia il caso». A quel punto, fu il caso di gettarsi nella grande avventura del western in salsa italica, “spaghetti”, meglio leoniana. Il suo alter ego, Bob Robertson, scrive e dirige Per un pugno di dollari, primo capitolo della fortunata trilogia, ispirandosi a La sfida del samurai di Kurosawa. Intuizione geniale, in cui l’universo western è anche un pretesto per sfogare la sua rabbia civile di socialista deluso («anche da Nenni»). Un’opera in cui la teatralità si fonda sulle maschere goldoniane, dall’algido Clint Eastwood al più dissidente degli attori nostrani, Gian Maria Volonté, che incontrano “caratteristi” unici e selezionati, come il borgataro Mario Brega. Il successo internazionale di questa pellicola che inaugurava un genere, aprirà la strada americana a Leone che in due anni, 1965-’66, gira Per qualche dollaro in piùe Il buono, il brutto, il cattivo. Pellicole apprezzate anche dai francesi, per i ritmi lenti e riflessivi. Consenso unanime per l’originale fusione tra suoni e rumori: è la musica di Ennio Morricone. Un sodalizio indissolubile Leone-Morricone, iniziato con un ascolto infelice On the Wind. Brano bocciato, ma a Leone «qualcosa era arrivato» all’orecchio, un fischio, come quello inconfondibile di Alessandro Alessandroni «che sarebbe comparso nel cast di tutti i miei film e di molti altri».

La sua “macchina cinematografica” diventa sempre più riconoscibile e riconosciuta. Henry Fonda in un solo giorno si chiude in sala, vede i suoi tre film e accetta di girare C’era una volta il West. Siamo ormai oltre la trilogia, azzarda e rilancia con Giù la testa Film sostenuto, ancor prima della proiezione, da Pier Paolo Pasolini. «A chi gli diceva che avrei preso una batosta con Giù la testa Pasolini rispondeva: “Potrà non incassare grosse cifre. Ma sarà un gran bel film... Sergio Leone non può sbagliarsi». E intanto Dustin Hoffmann non sbaglia un film, cantava un giovane Luca Carboni nel 1984, l’anno dell’apoteosi di Leone, che, non solo non sbagliava un film, ma dopo tredici lunghi anni di assenza dal set, firmava il suo capolavoro assoluto, C’era una volta in America. Un “filmone”, con un Robert De Niro stratosferico. Una fotografia memorabile quanto il solito “film nel film”, la colonna sonora di Morricone. Un’opera d’arte assoluta C’era una volta in America che avrebbe meritato l’Oscar ma quell’anno andò a Ingmar Bergman («che usa il cinema per fare letteratura») con il suo Fanny e Alexander, mentre l’America celebrava smisuratamente il film di James L. Brooks Voglia di tenerezza «che è solo un miscuglio di Dallas e altre soap opera del genere», castigava caustico come sempre Sergio Leone. Il suo cinema era “anti-Oscar” perché partiva dal «tradizionale per poi demolire le convenzioni e per giocare con le apparenze». Tutto il resto, per lui era noia, e come John Ford soleva ripetere: «Adoro fare film ma non mi va di parlarne». I suoi film invece fanno ancora discutere, ed è un peccato che oltre a Céline non abbia potuto raccontarci l’altro “incompiuto”: I novecento giorni di Leningrado. Doveva iniziare con «un primo piano sulle mani di Šostakovic, posate sui tasti del pianoforte...». Quella musica è finita, il cinema di Sergio Leone no, rimarrà in eterno.

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