sabato 12 novembre 2022
Nei gusci di noce in cui don Antonio Maria Esposito ha ricostruito, miniaturizzandole, le grandiose scene della “Divina Commedia” si incontra l'umiltà del Magnificat e della grande poesia
Una delle miniature dantesche realizzate da Antonio Maria Esposito

Una delle miniature dantesche realizzate da Antonio Maria Esposito - Olschki

COMMENTA E CONDIVIDI

Il “Museodivino” di Napoli custodisce gelosamente minuscoli presepi e scene della Divina Commedia per sottili filamenti dipinti e deposti in gusci di noce da don Antonio Maria Esposito (1917-2007), in un paziente esercizio di raccoglimento nel minimo che è virtuosità e ascesi a un tempo. Con sapienza e passione Silvia Corsi Andreani li ha fatti restaurare e fotografare e ora si possono contemplare, munendoci di una potente lente di ingrandimento, a Napoli (e per qualche giorno anche a Firenze, alla Certosa del Galluzzo, dal 16 novembre). L’editore Olschki pubblica le 42 scene dantesche nel volume La Divina Commedia di Antonio Maria Esposito tra miniatura, scultura e spiritualità, a cura di Silvia Corsi Andreani (pagine XII+200 con 176 figure a colori, euro 50) che verrà presentato a Firenze, Certosa del Galluzzo, Via della Certosa 1, sempre il 16 novembre alle 17. Lo stesso editore lo scorso anno aveva edito i presepi in una noce a corredo della Novena del Santo Natale di Alfonso Maria de’ Liguori (con introduzione di José Tolentino Mendonça). Granelli di pera, frammenti di muschio, goccioline di pittura delineano i regni eterni, i volti umani, le fronde degli alberi, i cieli e gli oceani. Le fotografie di Giorgio Cossu sono corredate da saggi acuti ed eleganti, tra i quali quelli di Marco Collareta, e di Véronique Mattiussi.

Quale dunque può essere la pertinenza del “minimo”, scelta da don Antonio Esposito per interpretare gli episodi salienti del poema? Apparentemente in questo epos apocalittico che attraversa, anzi conduce, il poema si direbbe assai poca. La Commedia è infatti, come ha scritto Romano Guardini, «Paesaggio dell’eternità», ricapitolazione di mondi, urto di giganti (da Capaneo al Veglio di Creta), di eroi, di imperi, di odi e di vendette estreme, come quella invocata per sommergere Pisa: «muovasi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch’elli annieghi in te ogne persona! » ( Inf. XXXIII, 82-84). Eppure, a meglio vedere, Dante – come sempre – ci sorprende, regalandoci un apax assai prezioso: una sola e unica volta appare “minimo” nella Commedia e in un punto alto e trepidante del Paradiso: « vid’ io più di mille angeli festanti, / ciascun distinto di fulgore e d’arte. / Vidi a lor giochi quivi e a lor canti / ridere una bellezza, che letizia / era ne li occhi a tutti li altri santi; / e s’io avessi in dir tanta divizia / quanta ad imaginar, non ardirei / lo minimo tentar di sua delizia» ( Par., XXXI, 131142, explicit). Il trionfo di Maria, celebrato da una miriade di angeli festanti, è sottolineato dal poeta con un magnifico adunaton: «se anche avessi tant’arte espressiva quanta ne ho nell’immaginare, pure non oserei cimentarmi neppure con il minimo di tanta delizia e grazia».

«Lo minimo tentar di delizia» è uno dei versi più belli della Commedia, non per fulgore dell’onnipotenza, ma per l’evangelico sommesso raccogliersi del senso finale in tutto ciò che non appare: parabola certo del “granello di senape”: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra». [Marco, IV, 30-32; Matteo 13, 31-32; Luca 13, 18-19]. Ma più ancora si tratta di ripresa esegetica tra le più meditate e fedeli del Magnificat, perché tutta la grandezza e le delizie di Maria sono nella sua umiltà: «quia respexit humilitatem ancillæ suæ. / Ecce enim ex hoc beatam me dicent / omnes generationes, / […] / deposuit potentes de sede / et exaltavit humiles » (Luca, 1, 39-55). Il poema insomma si chiude come avrebbe voluto Ambrogio nella sua Expositio Evangelii secundum Lucam: «Humilitatem enim respicit Dominus: Quia respexit humilitatem ancillae suae. Communis ista generalisque medicina est [L’umiltà è la più generale e comune medicina] ». Ma non è solo Dante a raccogliere nel “minimo” il senso della plenitudine.

Un grande poeta del XX secolo, che avrebbe amato – se l’avesse conosciuto – don Antonio Esposito, e cioè Giovanni Giudici, ha saputo anch’egli raccogliere nel minimo la stessa dimensione del divino, specialmente nella raccolta Lume dei tuoi misteri: «Keep us quiet Our Something / Includi e proteggi – Nostro Qualcosa / Sii calmo in cambio non guasteremo / Questo buio bambagia dolore di lana // Tieni la nostre mente a freno / Non soffra spasmi il tuo seno / Portaci sacco infinito infinitesimi giona / Di cui tremano antenne onde vibrò // Vanno spiriti e pregheremo - / Ich bin eine Besonderheit des Nichts / Mein Gott / Mein Tod» ( Orazione). In quel punto lontanante che vagheggiamo come nostra dimora e verità: «Dio con te stesso ricongiunto / Nel vano punto del tuo punto // […] / Dove di noi sorride e sta / La minima tua verità» ( ivi, Aspirazioni). Nell’incompiuta misura alla quale mai sarà possibile supplire, mai possibile rinunciare: « Ma non guasti fiacca fede / L’incompiuta sua misura: / Se Gesù non è risorto / Siamo cenere e impostura» (Giudici, Imperfezioni liturgiche). «Dove di noi sorride e sta / La minima tua verità»: sì , essa risiede in questi gusci di noce, nella pazienza dell’invisibile eppur presente. ​

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: