giovedì 30 luglio 2020
Il roveretano aveva appena sedici anni quando compose il “Dialogo tra Cieco e Lucillo”, ora proposto in volume assieme ad altri scritti giovanili
Il monumento ad Antonio Rosmini di Milano

Il monumento ad Antonio Rosmini di Milano - -

COMMENTA E CONDIVIDI

«E’ son tanti o Cieco i vantaggi di questa amistade figliuola della natura, son tanti e tali ch’io non volgo a dirli tutti, in tutta grandezza essa fa presenti i lontani, i poveri arichisce fa i deboli forti; i morti fa insomma vivi. Lega insieme il cielo e la terra e fa dolce la vita agli uomini, ond’è che fu detto neuna cosa essere più gioconda dell’amistade. O quanto è dolce trovare un’amico in chi si possa riporre ogni segreto! come con seco medesimo. Un’amico col quale fruire insieme la prosperità, e le contentezze, un’amico onde partire le miserie, e le afrizioni di questo mondo. Senza di questo ogni pensiero è tedio, ogni operazione fatica, ogni terra pellegrinaggio, od esilio, ogni vita tormento. E’ mi bramerà vivere senz’amico ancorché gli altri beni di questa terra avesse?». Così scrive Antonio Rosmini nel Dialogo tra Cieco e Lucillo risalente, con grande probabilità, alla seconda metà del 1813 e pubblicato ora in anteprima assoluta dalle edizioni Inschibboleth, insieme al contemporaneo Delle laudi dell’amistà, nel volumetto Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili (pagine 120, euro 12,00) e da oggi disponibile in libreria. Merito della scoperta e della realizzazione dell’edizione critica di questi trattatelli va a Emanuele Pili, autore di recente anche di Se l’uno è l’altro. Ontologia e intersoggettività in Antonio Rosmini (Edizioni di pagina), libro che ha il pregio di condurre il Roveretano nel suo luogo naturale, ovvero nel cuore del dibattito del pensiero continentale contemporaneo da cui spesso è stato tenuto lontano.

Non bisogna illudersi, comunque. Delle laudi dell’amistà e Dialogo tra Cieco e Lucillo non hanno pretese di originalità né di innovazione eppure, come sottolinea Fulvio De Giorgi nella prefazione, figureranno «nella bibliografia essenziale delle fonti primarie» di Rosmini. Non deve certo sorprendere il procedere e l’argomentare acerbo dei due lavori. Allora il pensatore di Rovereto, appena sedicenne, non aveva ancora scoperto la filosofia. Le sue porte si sarebbero schiuse per lui solo l’anno successivo, dopo l’incontro con Pietro Orsi. Eppure queste pagine giovanili, per la prima volta disponibili per il largo pubblico, custodiscono già in nuce temi e problemi intorno a cui Rosmini continuerà a meditare fino agli anni non più verdi. Lo conferma lo stesso Rosmini nel tardo Degli studi dell’Autore dove ricorda che «per vero tutti gli scritti che poscia, in età più matura, comunicammo al pubblico, furono lo svolgimento di que’ semi». E la stessa Teosofia lo testimonia quando tra le sue pagine recita, facendo quasi eco a quanto il grande pensatore italiano pensava già in età adolescenziale, vale a dire che «tutte le nature delle cose sono connesse – scrive –, e fra loro inanellate, l’una chiama l’altra, l’una all’altra si continua e si appoggia, e reciprocamente si sorreggono: quindi la mirabile unità del tutto senza alcuna confusione delle parti, quindi ancora l’armonia e la consonanza di queste che dagli abissi intimi visceri dell’essere esce e risuona».

Non che mancassero le letture al giovane Rosmini. Se Cicerone, Seneca e Plutarco la fanno da padroni nelle pagine giovanili, come sottolinea Pili nell’introduzione, non mancano riferimenti a Virgilio, Boezio, Boccaccio, Dante, Francesco Petrarca, Poliziano, Ludovico Ariosto, Francesco di Sales anche se l’Aristotele dell’Etica Nicomachea ancora non figura nel suo cahier di letture. Eppure non ne ha bisogno. L’amicizia sta già al centro delle esigenze, teoretiche e vitali, di Antonio Rosmini. Non si tratta di un interesse estemporaneo. A più riprese nell’epistolario di quegli anni torna la questione dell’amicizia e della sua importanza anche se in Delle laudi dell’amistà Rosmini si lamenta che «né io ancora colui m’è venuto fatto di trovare, il quale meritar possa il dolce nome d’amico ». Il problema è tanto sentito che, qualche anno dopo queste prime esperienze di scrittura, tra il 1819 e il 1820, il pensatore di Rovereto costituirà una “Società degli Amici” con lo scopo di promuovere la crescita spirituale degli accoliti. Tutta l’attenzione rivolta all’amicizia dipende dal ruolo che Rosmini le assegna nell’economia dell’essere. Essa non riguarda solo affetti e morale. Ricopre uno statuto più ampio, quasi ontologico, anche in gioventù e troverà, nei testi maturi, sorgente nella Trinità. L’amicizia è «la grammatica relazionale cui risponde ogni realtà», sottolinea Pili. È solo in virtù di questo vincolo amicale dell’essere, animato dal Mistero trinitario, che l’amicizia gioca un ruolo nel conseguimento della virtù e che consente a Rosmini di riconoscerle ricadute morali come testimoniano già le battute conclusive del Dialogo tra Cieco e Lucillo. «Questo io agogno, o caro, onde l’un l’altro ajutati potessimo di leggeri a quella virtù pervenire, cui colla solitanea malagevole assai si arriva. E di fatti, e a che altro de’ l’amicizia esser rivolta, che all’ajuto della virtù? Ma deh quanto è difficile trovare colui col quale rimangasi in Amistade legati fino all’ultimo dì della vita come furono già Scipioni, ed i Leli!».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: