martedì 7 marzo 2023
Nella questione del ritorno alle comunità di origine vanno abbandonate le rigidità giuridiche o legate alla tutela per tenere conto delle specificità dei popoli e arrivare a una condivisione
La testa di fanciullo proveniente dal Partenone di Atene e conservata presso le Collezioni Pontificie e nei Musei Vaticani, donata dal Papa all’arcivescovo di Atene

La testa di fanciullo proveniente dal Partenone di Atene e conservata presso le Collezioni Pontificie e nei Musei Vaticani, donata dal Papa all’arcivescovo di Atene - Ansa - Musei Vaticani

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Il tema delle restituzioni di “beni”, a vario titolo considerati identitari da parte di piccole comunità o di intere nazioni, è ormai divenuto di grande attualità, al punto da interessare la cronaca dei quotidiani. Non si parla soltanto dei casi eclatanti di capolavori acquisiti in contesti di guerra o di occupazione, ma anche di microstorie, fatti locali legati a vicende e persone poco conosciute. Recentissima è la richiesta di recupero di tredici teschi umani sottratti a fine Ottocento sull’isola di Inishbofin, in Irlanda, da due ricercatori del Trinity College, per svolgere ricerche antropometriche. Il fenomeno è complesso per la sua varietà e diffusione e appare come una chiara richiesta di “riconoscimento” delle identità: un bisogno culturale, sociale e politico di esercitare il sentimento dell’appartenenza attraverso le testimonianze tangibili di una memoria condivisa. Un principio che trova piena espressione nell’ancora discussa Convenzione di Faro adottata dal Consiglio d’Europa nel 2005, ma che è anche frutto del processo, sacrosanto e inarrestabile, di affrancamento di Paesi in via di sviluppo troppo a lungo frenati dagli strascichi del colonialismo occidentale. È dunque soprattutto sotto un profilo etico che va considerato il dibattito sul cosiddetto “rimpatrio” dei patrimoni ed è evidente che tale confronto – che impone una presa di coscienza da parte di governi e cittadini – chiama in causa il ruolo dei musei ed il loro rapporto con i territori e le comunità. Nel 2020 il curatore del Pitt Rivers Museum di Oxford, Dan Hicks, ha pubblicato un libro dal titolo quanto mai eloquente: The Brutish museums (Pluto Press) un’arguta formulazione linguistica che allude alle violenze spesso sottese alla costituzione di alcuni grandi musei occidentali, tra i quali spicca il British di Londra. In quel volume Hicks ricostruisce la triste vicenda dei celebri bronzi del Benin (Nigeria), giunti nel Regno Unito a seguito di una feroce azione militare del 1897, programmata dagli inglesi non per rappresaglia, come narrato dalle cronache ufficiali, ma proprio al fine di perpetrare il saccheggio di quei preziosi manufatti. Il libro di Hicks (vera “call to action”, come lo ha definito il Guardian) affonda il dito nella piaga dell’imperialismo occidentale, reclamando l’urgenza di un risarcimento alle popolazioni che sono state private del loro patrimonio e della loro memoria (nel 2022 la Germania ha restituito un cospicuo nucleo di esemplari del tesoro del Benin, mentre dal British di Londra - che ne custodisce ben 900 - si attende una risposta concreta alle richieste nigeriane). Il braccio di ferro che si gioca sul terreno dei “patrimoni contesi” è tema delicatissimo che presenta risvolti diplomatici, culturali e anche di forte interesse economico. Basti pensare al caso dei celeberrimi marmi del Partenone, prelevati da Lord Elgin quando la Grecia era sotto il controllo dell’Impero Ottomano, ed entrati a far parte delle collezioni del British Museum a partire dal 1816. Con l’appoggio dell’Unesco, la Grecia rilancia periodicamente la sua richiesta di restituzione con proposte sempre più articolate – come quella di concedere in cambio prestiti di assoluto prestigio – e ottenendo da parte britannica risposte che vanno dalla miopia storiografica («i pezzi sono stati acquisiti in modo legittimo»), alla rigidità giuridica («la legge impedisce l’alienazione dei beni appartenenti ai musei della nazione»), al mero temporeggiamento (un libro di Alexander Herman, Restituzione. Il ritorno a casa dei tesori trafugati (Johan&Levi, 2022) illustra queste argomentazioni). Ad indebolire la posizione del Regno Unito hanno contribuito recentemente iniziative isolate promosse da altri soggetti dello scacchiere internazionale: nel solo 2022 si sono succeduti la restituzione italiana del “reperto Fagan” custodito nel Museo Salinas di Palermo e poi il dono all’arcivescovo di Atene dei tre frammenti conservati ai Musei Vaticani, un gesto che il Santo Padre ha inteso compiere «quale segno concreto del sincero desiderio di proseguire nel cammino ecumenico di testimonianza della Verità». Con le sue motivazioni, la scelta di Francesco - che è un raffinato esercizio di diplomazia politica e culturale apre la strada ad una riflessione fondamentale sulla questione del dialogo tra i popoli attraverso il patrimonio culturale, proprio all’insegna del riconoscimento delle reciproche identità. Una nuova sensibilità si va dunque affermando, raccogliendo consensi sempre più convinti e cominciando ad erodere il muro di diniego che ha unito una parte considerevole dell’occidente industrializzato, trincerato dietro l’argomentazione di una universalità delle collezioni di alcuni grandi musei, divenute talmente rappresentative dell’intera storia umana da non poter essere compromesse nella loro composizione e integrità. Un’affermadizioni zione di sicura convenienza, potremmo dire, che si accompagna sovente alla ulteriore giustificazione di una “garanzia di tutela” che i paesi di origine – spesso funestati da povertà e instabilità politica non potrebbero assicurare. Una svolta epocale in tale scenario è stata innescata da Emmanuel Macron, che in uno storico discorso tenuto nel 2017 all’Università di Ouagadougou (Burkina Faso) ha dichiarato l’intenzione di avviare la restituzione dei beni culturali sottratti ai Paesi africani: « È inaccettabile – ha sostenuto – che buona parte del patrimonio culturale dei Paesi africani sia custodito in Francia. […] intendo creare le con per un rimpatrio temporaneo o permanente del patrimonio africano». Il primo atto di quell’impegno politico fu la richiesta di un rapporto sulle possibili restituzioni, affidato alla francese Bénédicte Savoy e al senegalese Felwine Sarr: un documento che in Francia ha suscitato un acceso dibattito, aprendo un confronto sull’eredità scomoda del passato coloniale e sulle responsabilità dell’occidente rispetto al processo di “estrazione culturale” operata nei confronti dei popoli sottomessi. Tra i musei francesi oggi maggiormente coinvolti in questo impegno di riconoscimento verso i popoli africani è ovviamente il Quai Branly; un ente che è interessante considerare in chiave di rivisitazione post-coloniale, alla luce delle polemiche suscitate dall’approccio puramente estetico del suo allestimento (2006), che finisce col negare la contestualizzazione antropologica e culturale dei manufatti. Per comprendere cosa sia realmente in gioco nella vicenda delle restituzioni è indispensabile tenere in considerazione il punto di vista dei popoli di origine. È cruciale una piena condivisione dei processi di rimpatrio, che parte dalla scelta degli oggetti e si estende alla loro collocazione e a quella che potremmo definire “riattivazione culturale”. Spesso, gli oggetti depredati sono stati esposti e recepiti, ma anche risemantizzati, per qualità estetiche e formali del tutto distanti dalla loro funzione originaria. Un caso emblematico è quello dei Vigango kenioti, figure lignee essenziali (apprezzate dai collezionisti occidentali proprio per il loro “minimalismo”) che per le tribù animiste dei Mijikenda rappresentano gli spiriti degli antenati e hanno una funzione protettiva nei confronti delle comunità di appartenenza. Quando il Museo di Denver ha deciso di restituire i trenta Vigango della sua collezione (nei musei americani ve ne sono circa quattrocento), le autorità keniote si sono trovate di fronte a un problema di ricollocazione molto complesso; non era infatti possibile risarcire le comunità dei loro totem animisti, di cui si era persa l’esatta provenienza, ma era altresì insensato pensare di esporli in uno spazio museale in loco. Affinché la restituzione non si risolva in un ulteriore gesto di colonialismo, cioè di imposizione di un modello culturale tipicamente occidentale, è necessario innanzitutto uno sforzo di collaborazione e di ascolto con le popolazioni e gli Stati coinvolti, in una relazione che sia il più possibile paritaria sotto il profilo politico- sociale e scientifico. Si parla giustamente di un processo di accompagnamento delle operazioni di rimpatrio, che presuppone evidentemente un attento interrogarsi sulle più opportune modalità di ricollocazione degli oggetti, in una prospettiva di letterale recupero dei contesti e dei significati. Rientra in questo difficile processo il confronto sulla restituzione di resti umani, che ancor più profondamente comporta implicazioni di natura etica e che evidenzia le anomalie e le violenze perpetrate dall’occidente verso popolazioni più fragili e sottomesse.

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