
Il cardinale Gianfranco Ravasi - Siciliani
Anticipiamo il capitolo conclusivo dell’ultimo libro del cardinale Gianfranco Ravasi, già presidente del Pontificio consiglio della cultura, dal titolo L’alfabeto dell’uomo (San Paolo, pagine 174, euro 18,00). Un viaggio nei vizi e le virtù umane che parte da una consapevolezza: una certa predicazione moralistica del passato ha fatto di tutto per deprecare i vizi, ma ha reso anche poco attraenti le virtù, rendendole pedanti e noiose.
È stato un lungo viaggio quello da noi finora condotto. Insieme ci siamo inoltrati, prima, nell’orizzonte tenebroso dei sette vizi capitali, e poi, in quello luminoso delle sette virtù, le quattro «cardinali» e le tre «teologali». Si potrebbe continuare ulteriormente perché il mondo dei vizi e delle virtù è sconfinato, come lo sono la libertà e la personalità umana. Bisognerebbe anche allargare lo sguardo oltre quel duplice sette-nario, perché la trasformazione culturale e sociale (il «cambiamento d’epoca», come dice papa Francesco) ha generato altri vizi e virtù, talora collegati a quelli classici, altre volte del tutto nuovi. Pensiamo, ad esempio, a quanto concerne l’ecologia, la tutela della casa comune che è il nostro pianeta, sempre più devastato dall’egoismo e dall’incoscienza dei suoi abitanti.
I corollari possono essere molteplici, come ha segnalato l’enciclica Laudato si’: l’uso corretto e condiviso delle materie prime; la lotta contro lo scarto, nel senso di spreco ma anche di emarginazione; le energie rinnovabili; i diritti di proprietà sui brevetti medicinali; il bene insostituibile dell’acqua; l’applicazione delle tecnologie e tanti altri aspetti che coinvolgono l’autentico «coltivare e custodire la terra», affidato da Dio all’umanità (Gen 2,15).
Se vogliamo procedere ulteriormente nel complesso panorama contemporaneo, si aprirebbe davanti a noi la molteplicità dei diritti umani e civili nei cui confronti è particolarmente viva la sensibilità attuale. Tanto per esemplificare: il rispetto della libertà personale, anche religiosa, la pace internazionale, il diritto di cittadinanza all’immigrato stanziato in mezzo a noi, l’accoglienza solidale, la tutela della dignità e della privacy individuale, la lotta contro il razzismo, la promozione del dialogo interreligioso e interculturale e così via.
Si impone, poi, un aggiornamento dell’etica sociale in due settori capitali ai nostri giorni, segnati dalla globalizzazione: da un lato, il controllo dei sistemi economico-finanziari e, dall’altro, l’intelligenza artificiale e i suoi rischi, la comunicazione informatica, spesso inquinata dalle falsità (fake news), dall’aggressività, dalla degenerazione sessuale (in particolare, la pedopornografia), dai condizionamenti pubblicitari. Similmente è importante vincere le sirene del nazionalismo, del sovranismo, della chiusura, vivendo un genuino amor patrio che esalta la grandezza della propria eredità culturale e spirituale ma non esclude le altre tradizioni delle diverse religioni e civiltà.
Tanto altro potremmo aggiungere, anche su aspetti solo apparentemente secondari, come l’educazione, la cortesia, lo stile, il dominio di sé, la pacatezza. Rimane sempre vivo l’appello a un impegno morale severo ed esigente, personale e sociale.
Lasciamo, al riguardo, la parola a un predicatore vivace come san Bernardino da Siena che nella quaresima del 1425 a Firenze ironizzava: «Se non ti eserciti in qualche virtù spirituale e morale, diventi come un porco in stia, che pappa, bee e dorme. Non attendi ad altro che mangiare e bere e dormire e lussuriare… Se si è senza virtù, si è come il salcio del torrente, infruttuoso. Il torrente è la mente degli uomini viziosi, che subito corre via, come il torrente, ad ogni sensualità di carne o d’occhi o di mente. E rimangono canna vana e senza frutto: infruttuosi d’ogni bene, come il salcio del torrente e diventano un zero senza frutto».
A Corinto, Pasqua del 57 d.C.
Era la Pasqua del 57 d.C. e l’apostolo Paolo si trovava ad Efeso, splendida città sull’attuale costa turca del mar Egeo. Lo aveva raggiunto una missiva che gli segnalava la drammatica situazione della comunità cristiana di Corinto, la città greca dotata di ben due porti. Quella comunicazione gli era stata recapitata da alcuni funzionari di una donna manager, Cloe, che aveva una filiale della sua azienda anche ad Efeso. La Chiesa corinzia si stava sfaldando in fazioni opposte tra loro e degenerando dal punto di vista dottrinale, morale, liturgico e spirituale.
Paolo aveva, allora, dettato una lettera puntuale e severa, autenticandola con la sua firma («Il saluto è di mia mano, di Paolo»): sarebbe divenuta quella che chiamiamo Prima Lettera ai Corinzi. Ricordiamo che il brano che ora ritagliamo da quella Lettera viene proclamato anche nella Liturgia della Parola del giorno di Pasqua. Eccolo: «Non è bello che voi vi vantiate. Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (5,6-8).
L’Apostolo rimanda al rituale pasquale ebraico che impone ancor oggi di eliminare ogni residuo di pane lievitato presente nelle case. Al centro della tavola si deponeva l’agnello immolato, circondato da pani non lievitati, in greco «azzimi». La sua è una rilettura esistenziale e morale del rito: nella Pasqua cristiana al centro è collocato Cristo sacrificato, attorno a lui non possono fare corona persone corrotte, come lo è il pane fermentato raffermo, ma anime e corpi puri, simili per candore al pane azzimo.
In questa luce, Paolo introduce un contrasto tra vizi e virtù, presentando prima i peccati capitali per far subentrare poi le virtù teologali e cardinali. Egli, che scrive in greco, denuncia l’irruzione del male nella comunità di Corinto attraverso due qualità perverse. Innanzitutto la kakía, la cattiveria, la malizia, la malvagità, un termine che risuona 11 volte nel Nuovo Testamento (in italiano abbiamo, ad esempio, «cacofonia» per indicare una disarmonia nel suono e nella voce). C’è, poi, la ponería che, con l’aggettivo ponerós, si ripete 85 volte nel Nuovo Testamento e sottolinea la dimensione perversa del peccato, tant’è vero che nel Padre nostro si invoca: «Liberaci dal male (poneroû)» (Mt 6,13). Siamo, quindi, nell’orizzonte oscuro del vizio e del male morale.
Il cristiano – conclude l’Apostolo – deve invece essere testimone di eilikrinéia: la sincerità, la purezza, un termine usato solo da Paolo tre volte nelle sue Lettere. Deve, infine, essere amante dell’alétheia, la verità, una parola cara al Nuovo Testamento (109 volte), per indicare non solo l’onestà intellettuale ma la piena adesione al messaggio e alla persona di Cristo che si è definito così: «Io sono la via, la verità (alétheia) e la vita» (Gv 14,6). È questo appello risuonato nel 57 d.C. che noi poniamo a suggello del nostro itinerario essenziale condotto nel mondo della morale dell’autentica vita cristiana.