venerdì 1 giugno 2018
Il 10 giugno di cinquant’anni fa la Nazionale vinse il suo primo e unico Europeo. Parla l'ex centrocampista azzurro: «Quella squadra era piena di campioni con personalità, oggi invece mancano»
Giovanni Lodetti, protagonista in Nazionale agli Europei del 1968

Giovanni Lodetti, protagonista in Nazionale agli Europei del 1968

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«Ceramica, dai, raccontaci come hai vinto l’Europeo del 1968». Parco di Trenno, Milano, qualche anno fa alla fine della partitella del sabato mattina un gruppo di ragazzi circonda il non più giovane “Ceramica”, al secolo, Giovanni Lodetti, e gli chiede lumi su quella prima – e unica – impresa europea della Nazionale di calcio. Il centrocampista del Milan di Rocco per anni aveva giocato in «incognito» contro quei ragazzini, all’inizio titubanti nell’ammetterlo in squadra. «A parte la pelata che ho sempre avuto, ero già un over 50 e pensavano fossi un “umarel” (il pensionato curioso che controlla i lavori dei cantieri) buono a niente. Poi quando entrai e gli feci vincere la partita alla loro domanda, ma come ti chiami? Risposi con il primo nome che vidi asciugandomi il sudore dalla fronte, era quello stampato sulla mia maglia, “Ceramica”».

Se la ride Lodetti sotto quel mento impettito che per tutti i milanisti d’antan è quello dell’eterno “Basléta”. «Il terzo polmone di Rivera», il Giuanin, che quel giugno del ’68 rispose da campione d’Italia (scudetto e poi Coppa Campioni e Intercontinentale alla fine dei ’60) alla chiamata del ct Ferruccio Valcareggi. Lodetti salta la semifinale del San Paolo di Napoli contro la Russia, quella della storica e rocambolesca vittoria grazie alla monetina. «Ogni volta che ricordavamo quell’episodio con capitan Facchetti gli dicevo: mi sa che avevi preso una moneta con una faccia sola Giacinto... Ridevamo di gusto e risentivamo le urla di gioia dello spogliatoio quando Facchetti rientrò per comunicarci che grazie alla moneta eravamo in finale». L’8 giugno l’Italia arriva alla finalissima degli Europei in uno stadio Olimpico di Roma pieno come un otre, 80 mila cuori azzurri contro una Jugoslavia “titina” anche in campo, ma sfavorita. E Lodetti stavolta c’è. «Giocavamo in casa e questo fu sufficiente a darci una carica incredibile. E poi eravamo baciati dalla fortuna che non ci abbandonò neppure quella sera in cui gli slavi ci misero in seria difficoltà. Sotto di un gol, a dieci minuti dalla fine trovammo il pari con Domenghini», racconta appassionato Lodetti. Risultato inchiodato sull’1-1, e allora non esisteva la lotteria dei rigori, perciò Italia e Jugoslavia concessero il bis del 10 giugno. E fu il trionfo degli azzurri.

«Valcareggi rimaneggiò la squadra, cambiò la metà dei giocatori della prima finale e con Rivera ovviamente buttò fuori anche me... Però sapevamo che ce l’avremmo fatta perché tornava in campo Gigi Riva e con lui si partiva sempre sull’1-0 (infatti segnò al 12’). Poi alla mezz’ora esplose quel tiro Anastasi e fu la rete che diede il via a una festa incredibile in quella bella notte romana che non dimenticherò mai». Una festa che a distanza di cinquant’anni esatti verrà celebrata ma Lodetti annuncia che non andrà a Roma per l’occasione. «Non mi sembra giusto, dopo quello che mi è successo due anni dopo in Messico...». Per chi si sintonizza con la storia di cuoio con mezzo secolo di ritardo ricordiamo che Ferruccio Valcareggi, al Mondiale di Messico ’70 aveva convocato Lodetti salvo poi rispedirlo a casa dopo l’infortunio di Anastasi. Al suo posto: il compagno del Milan, Pierino Prati. «Se adesso non intendo festeggiare l’Europeo del ’68 è perché a me quella storia lì mi ha cambiato la vita.... Non covo rancore verso nessuno perché io mi ritengo un uomo di pace e ho sempre vissuto il calcio per quello che è, un gioco bellissimo che mi ha dato da vivere e soprattutto mi ha fatto divertire tanto. Però io in Messico mi sono sentito umiliato, come uomo e poi anche professionalmente. Chi restava in Nazionale quell’estate non poteva essere trasferito, io tornando a casa venni messo sul mercato e il Milan mi cedette alla Sampdoria (in cambio di Benetti)».

Ricordi amari, da azzurro tenebra per Lodetti che, eppure, aveva vissuto anche la gran debâcle del Mondiale del ’66, quello della “Corea italiana”. «Una figuraccia che vissi in tribuna, perché anche Mondino Fabbri aveva deciso che serviva il turnover. Contro la Corea dovevo riposare assieme ad altri che avevano giocato e perso contro l’Urss...». Quell’Urss poi sconfitta agli Europei con la monetina di Napoli, il conio che porterà per sempre il sorriso bello e pulito del galantuomo del calcio azzurro, Giacinto Facchetti. «Giacinto è stato l’unico che quando mi rispedirono in Italia dal Messico mi venne a cercare per dirmi: “Giovanni, appena torno a casa sappi che su di me ci potrai contare, sempre. Qualsiasi cosa ti serve, chiamami”. L’ho chiamato fino all’ultimo giorno che è stato qui con noi... Mi manca Facchetti, come mancano al nostro calcio figure di riferimento tipo quel cuore Toro del Giorgio Ferrini o la mente illuminata di Giacomo Bulgarelli, l’unico laureato tra di noi. Giacomo era uno che parlava con Pasolini e che, a differenza della maggior parte di noi giovani calciatori, si era reso conto del vento del ’68... Con Bulgarelli ci siamo anche scambiati il favore di farci da testimoni di nozze». Tutti campioni d’Europa. Un gruppo unito, «fatto di gente di personalità che oggi scarseggia nel calcio italiano. È tornato Balotelli in Nazionale e per un gol che ha segnato agli arabi lo trattano come Pelè... Ma siamo seri su», sorride sornione Lodetti che ha la ricetta per tornare ad essere felici e vincenti, non solo nel calcio.

«La mia generazione ha avuto la fortuna di vivere il decennio migliore dello sport tutto, e cioè quello che va dalle Olimpiadi di Roma 1960 al Mondiale messicano del ’70. Si vinceva e ci si divertiva perché allora gli atleti prima di tutto pensavano al gioco, si allenavano, faticavano, ma lo facevano per il piacere di farlo e per l’orgoglio di indossare la maglia della Nazionale. Noi calciatori poi, non eravamo mai stanchi e tanto meno stressati, come invece vanno ripetendo sempre quelli di adesso. Sono ragazzi che purtroppo vivono dentro un sistema in cui ognuno di loro è un’azienda che rappresenta prima il singolo e poi, forse, la squadra... Il calcio è diventato un business e io invece sono un innamorato, un po’ tradito, di quel bel gioco puro che è stato». Meglio indossare la maschera e la maglia del “Ceramica” e tornare in campo con i ragazzi del Parco Trenno. «No, ho smesso, ad agosto compio 76 anni. L’ho fatto per mia moglie, per farla stare tranquilla. Io quando gioco prima di tutto corro come quando avevo vent’anni e correvo anche per Rivera... e gioco sempre per vincere ». Sorride e se ne va, di corsa, il Basléta: per lui il ’68 non è mai finito.

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