giovedì 13 maggio 2021
Il 19 maggio 1991 guidati dallo “zio” Boskov i blucerchiati vincevano uno storico tricolore. Oltre a Mancini e Vialli quella squadra era una pinacoteca di campioni: la collezione di patron Mantovani
19 maggio 1991, la gran festa doriana di Marassi: la Sampdoria di Vialli e Mancini è campione d’Italia

19 maggio 1991, la gran festa doriana di Marassi: la Sampdoria di Vialli e Mancini è campione d’Italia

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Quando il bambino era bambino, venne Natale alla fine di maggio. Trent’anni fa, domenica 19 maggio 1991 e 3-0 al Lecce nel quale retrocedeva Antonio Conte, la Sampdoria di Mantovani chiudeva il cerchio del suo tempo, segnando la fine dell’infanzia, conquistando lo scudetto. Visto da molto lontano ormai, quello fu qualcosa più di un tricolore. Fu il confine tra il calcio come gioco e lo spettacolo chiuso in una scatola elettrica. Il bambino non si accontentava di salire sulla sedia e leggere la poesia alla festa dei grandi, si prendeva tutto lui. Quella squadra perse più di quanto avrebbe vinto, vinse meno del suo valore. Uno scudetto solo, come Verona e Cagliari. Una Coppa europea soltanto, molto meno del Parma. E forse il titolo del 1991 fu una specie di imponderabile compensazione, rispetto a quelli mancati dalle squadre di Bersellini e Souness nel 1985 e di Eriksson e Gullit nel 1994. Squadre che per qualcuno erano più forti di quella dello “zio” Boskov. La Sampdoria vinse nel 1991 il campionato forse più difficile di sempre, mettendo in riga l’Inter dei tedeschi, il Milan degli olandesi e il Napoli di Maradona, mentre la Juventus di Maifredi si autoescludeva finendo addirittura fuori dalle Coppe.

Fu il campionato più difficile e bello e incerto di sempre, nell’anno in cui il calcio italiano dominava il Continente. Nella primavera precedente infatti l’Italia aveva conquistato tutt’e tre le Coppe europee: il Milan la Coppa Campioni a Vienna sul Benfica, gli stessi blucerchiati la Coppa Coppe all’Ullevi di Goteborg contro l’Anderlecht, la Juventus la Coppa Uefa nella finale contro la Fiorentina, prima di sempre tra due italiane. Il Mondiale 1990 in casa era stato invece un fallimento, oggi si dice, perché il buon Vicini da ex giocatore blucerchiato non aveva avuto il coraggio, forse per le pressioni dei media metropolitani, di far giocare sempre i quattro “sampdoriani” che aveva in rosa. Maradona, prima della semifinale di Napoli, si era stupito di non trovare negli azzurri Vierchowod, «l’uomo verde» che più di tutti aveva e avrebbe temuto, ma che non avrebbe giocato quasi mai a beneficio di Ferri. Pagliuca fu il terzo portiere dietro Zenga e Tacconi, Vialli presto venne emarginato per la breve fioritura di Schillaci, per Mancini sempre in panchina senza alzarsi mai non ci fu neanche un minuto di non amore. L’attuale ct dell’Italia è forse l’ex calciatore di maggior talento, in una Nazionale di prestigio, a non aver mai marcato neppure una presenza in un Mondiale.

Quel disappunto dei sampdoriani per l’ostracismo azzurro fu forse il carburante di rivalsa per un’impresa irripetibile. Eppure le difficoltà non erano mancate: Vialli assente per i primi due mesi per una microfrattura al piede, Vierchowod colpito a ottobre da pneumotorace spontaneo, Cerezo fuori da novembre ad aprile per un infortunio patito in Coppa Coppe contro l’Olympiakos, Pagliuca e Mancini finiti sul ciglio di una maxisqualifica per le scintille con l’arbitro Ceccarini dopo la partita di Marassi col Torino. La Sampdoria ebbe una sola flessione tra autunno e inverno, dalla sconfitta nel derby a quella di Lecce, ma dopo la partita in Salento non perse più.

Quattro i passaggi emblematici: innanzitutto le due vittorie col Napoli campione uscente, entrambe per 4-1. La seconda, il 24 marzo a Marassi, sarebbe passata alla storia per l’ultimo gol in Italia di Maradona, che otto anni prima sempre al Doria aveva segnato la sua prima rete italiana. E poi i due colpacci a San Siro: a novembre sul Milan, con un gol di Cerezo al culmine di sette tocchi tutti di prima, per una foto che Mantovani si appese in ufficio. E poi il 5 maggio 1991, assalto interista e gol di Dossena, nuovo assalto e rigore parato da Pagliuca a Matthaeus che in carriera non ne aveva sbagliati mai, infine il rilancio di Mannini e il dribbling di Vialli a Zenga e la capriola del numero 9, secondo e penultimo capocannoniere doriano di sempre dopo Brighenti e prima di Quagliarella, sotto la curva sud occupata da 25mila cuori blucerchia- ti. Oggi i reduci ingrigiti parlano di quel trionfo con nostalgia canagliesca, come della zingarata di un gruppo di amici. Erano invece, ruolo per ruolo, i più forti calciatori italiani del momento, con gli stranieri (Katanec, Cerezo e Mikhailickenko) in una collocazione non decisiva come nelle avversarie.

Mantovani, presidente dal 1979 alla morte il 14 ottobre 1993, aveva costruito la sua pinacoteca di campioni anno dopo anno, grazie a un consulente come Claudio Nassi e a un patrimonio accumulato nel petrolio. Un dato su tutti: fino alla conquista matematica del titolo, il Doria subì soltanto sei gol in trasferta. Poi venne la gita a Roma, il 3-3 con la Lazio e la visita a Giovanni Paolo II, con Cerezo che per l’udienza papale si era ritinto di scuro i capelli ossigenati qualche giorno prima per scherzo, insieme con Vialli e Bonetti. L’assalto al cielo di quella Sampdoria sarebbe finito un anno dopo, in Coppa dei Campioni, l’ultima prima del cambio di nome e dell’allargamento alle piazzate, perduta ai supplementari, dopo che proprio Vialli aveva mancato il gol d’oro con un lezioso pallonetto sotto la curva doriana dell’Empire quell’amore. Stadium di Wembley. La domenica seguente, ultima di campionato, Vialli lasciò il Doria, contro la Cremonese in cui lo stesso giorno Chiorri antico idolo doriano lasciava il calcio. Proprio Chiorri, grande promessa tradita, il primo giorno di primavera del 1981 aveva acceso le luci a San Siro, in una partita di B col Milan che fu l’inizio del sogno. Ora se ne andava con Vialli, di cui aveva preso il posto in grigiorosso, mentre al Bologna aveva ceduto il posto all’esordiente Mancini.

Era una cerimonia degli addii e l’inizio della nostalgia. Mantovani se ne andò nell’autunno del 1993, lasciando una moltitudine orfana del suo sogno. Trent’anni dopo, non servono che le parole di Mario Tobino: Fu un amore, amici, che doveva finire / Con pena, con lunga ritrosia ci ricredemmo / Rimane in noi il giglio di quell'amore.

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