venerdì 13 aprile 2018
Al Museo Max di Chiasso una mostra sull'influenza che gli scavi nelle aree sepolte dal Vesuvio ebbero sull'immaginario e la cultura dal Settecento in poi
Pompei, Cammeo con Ittiocentauro (I sec. a.C. - I sec. d.C.)

Pompei, Cammeo con Ittiocentauro (I sec. a.C. - I sec. d.C.)

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Può darsi che quando cominciarono gli scavi a Ercolano qualche decennio dopo il ritrovamento casuale nel 1709, la metodologia archeologica non fosse proprio quella più adatta per la conservazione delle antichità ritrovate. Stiamo comunque parlando di scavi condotti oltre venti metri sotto il suolo dell’epoca, in un sito dove si era manifestata con particolare virulenza l’attività del Vesuvio nel 79 d.C. che aveva coperto di lava anche Pompei e Stabiae e altri insediamenti circostanti. Certo è che l’opera dei Borbone fu meritoria e lunga. Il Museo Max di Chiasso, in collaborazione con l’Archeologico di Napoli (Mann), ci offre ora la possibilità di comprendere gli effetti di quella scoperta sulla cultura e l’immaginario europeo fra Settecento e primo Novecento, in una mostra ricca di cose inedite e di un apparato storico-critico notevole, sotto la cura di Pietro G. Guzzo, Maria R. Esposito e Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del museo (fino al 13 maggio; catalogo Skira).

Sono presentati 23 reperti originali provenienti dal Mann, fra cui un anello mai prima esposto di Carlo di Borbone, e oltre duecento opere di documentazione visiva; nell’insieme la mostra può dirsi la ricostruzione della “ricezione” moderna di una scoperta archeologica. Di questa comunicazione e dello studio di alcuni intenditori ( Winckelmann per esempio), si nutrì il neoclassicismo, ma anche il culto delle rovine romantico, e intere generazioni di artisti europei (in particolare francesi) si formarono allo studio dell’antico anche quando lo stile classico era più distante dai gusti dell’epoca. Carlo di Borbone, pur ancora giovane ma tutt’altro che insensibile alla scoperta, decise di avviare un’opera sistematica di scavo coinvolgendo l’apparato dello Stato e impiegando centinaia di militari del Genio; per dare degna cornice a quanto veniva ritrovato nel 1759 fondò anche l’Accademia Ercolanese perché sviluppasse gli studi sulla materia. Gli artefici della fortuna critica di Ercolano e Pompei hanno nomi ben precisi: a parte Winckelmann, grande merito va a Karl Jakob Weber che disegnò nei particolari le planimetrie delle ville di Giulia Felice a Pompei, di Villa dei Papiri e del Teatro di Ercolano, per la prima volta qui riunite; molto importanti anche le acqueforti Piranesi padre e figlio, le opere di documentazione di François Mazois e dei nostri Luigi Rossini e Pietro Bianchi. Ma in realtà il numero dei protagonisti di questa fortuna storica di Ercolano e Pompei è assai più elevato.

Esisteva anche una questione di segretezza, o quanto meno di protezione di quello che potremmo considerare il copyright sia sulla scoperta sia sui singoli ritrovamenti. Un tema attuale, quello del diritto di sfruttamento delle immagini; ma d’intramontabile furbizia fu il modo di aggirarlo poiché i Borbone vietavano il disegno dal vero dei reperti. La tecnica suggerita dalla Francia ai propri disegnatori era quella di fissarsi bene nella memoria le parti da rilevare e poi a casa stenderne il disegno indicando a margine “disegnato a memoria” (bastava questo evidentemente per eludere il divieto); ma altri adottavano escamotage che attestano come la natura umana non sia poi molto cambiata dall’epoca. Tre erano le tecniche: alla pausa del pranzo, gli studiosi si accingevano al pasto e chiedevano ai custodi di lasciarli liberi di mangiare in santa pace, ma quando questi si allontanavano cominciavano alacremente a disegnare; altri usavano il metodo della corruzione pecuniaria del custode di turno, perché fingesse di non vedere; ultimo, vile ma simpatico espediente, i disegnatori si facevano accompagnare da una bella figliola che calamitava le attenzioni dei custodi e li distraeva dal loro compito.

È grazie a tutti questi mezzi e mezzucci se ben presto l’immagine di Ercolano e Pompei si diffuse in Francia e in Europa dando impulso a una nuova visione del classico. Con la proclamazione della Repubblica partenopea dopo la conquista di Napoli da parte dei francesi, ricominciò l’opera di rilevamento grafico delle case e delle opere dissepolte; e fu soprattutto quando salì sul trono Gioacchino Murat che la moglie Maria Carolina, sorella di Napoleone, incentivò il lavoro archeologico così che, fra il 1809 e il 1813, Charles François Mazois riuscì a documentare gli scavi effettuati nel primo periodo borbonico, poi confluiti in Les ruines de Pompéi edito tra il 1812 e il 1838. Non saranno soltanto gli artisti o gli scrittori come Goethe o Stendhal a lasciare le loro annotazioni in lettere e libri, il Grand Tour infatti fece di Napoli e dintorni una meta obbligata, anche perché in Europa le notizie e le prime incisioni (come Le Antichità di Ercolano esposte in 8 volumi volute da Carlo di Borbone, stampati fra il 1757 e il 1792, tutti esposti al Max oltre ad alcune matrici in rame mai editate che avrebbero dovuto completare l’opera) girano e la curiosità è grande. La mostra espone dodici delle grandi e straordinarie acqueforti dei Piranesi, provenienti dalla Raccolta Bertarelli.

Le rovine riscoperte attirano i viaggiatori che si dilettano con disegni, acquarelli, schizzi, taccuini e fra questi è esposto quello straordinario di William Gell, riprodotto anche in digitale in modo che il pubblico possa ammirarlo in ogni sua pagina. Vanno quantomeno ricordate anche le gouaches di Hackert, Giacinto Gigante, Achille Vianelli. Con la Restaurazione i Borbone affidano gli scavi a Pietro Bianchi, e l’artista ticinese con grande impegno porta alla luce, fra l’altro, la Casa del Fauno di Pompei. Di Bianchi sono in mostra una serie di tavole con piccole incisioni delle Vedute di Pompei che ci fanno comprendere i progressi fatti negli scavi fra 1830 e 1845. La fine dell’Ottocento sarà poi il tempo dove il mito pompeiano assurgerà a fatto di moda, come s’intuisce dal manifesto della mostra del 1893 che presenta le cromolitografie di Antonio Coppola, intitolata Pompei di diciotto secoli fa, Pompei attuale. Ma l’opera che forse documenta meglio il mito, in anticipo di decenni sui fasti hollywoodiani, è l’Interno pompeiano dipinto nel 1882 da Luigi Bazzani. La fotografia intanto si è già messa al lavoro, come si può vedere nelle opere di Giorgio Sommer, Giacomo Brogi e degli Esposito. La fortuna dell’immaginario pompeiano corre ormai sui canali moderni delle cartoline souvenir che dal primo Novecento lo portano fin Oltreoceano. La mostra, da fine giugno a fine settembre, sarà allestita nella sua sede più naturale, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

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