venerdì 30 settembre 2022
Oltre 120 opere dall’Archeologico di Napoli per far conoscere al pubblico come dipingevano gli artefici degli affreschi che decoravano le case romane. E nel XVIII secolo ci fu chi smerciava falsi
Pittura romana del I. sec. d.C., particolare della prima ancella in “Europa su toro” (Casa di Giasone)

Pittura romana del I. sec. d.C., particolare della prima ancella in “Europa su toro” (Casa di Giasone) - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli arrivano in via Archiginnasio, per un rapporto di collaborazione con quello bolognese la cui ultima mostra pompeiana (per lo più documentale) rimonta a quarant’anni fa, centoventitré opere: un centinaio di affreschi di pittura romana, strumenti di lavoro dei pictores , ciotole e pigmenti, brocche e altri contenitori, coppe di vetro e terracotta, lucerne, tavolini e candelabri, colini e attingitoi, alcuni mosaici e un falso. Il falsario era tale Giuseppe Guerra, pittore e restauratore, che nel XVIII secolo, al tempo della Corte borbonica, aveva per un po’ ingannato antiquari e collezionisti, bramosi di queste rarissime pitture, riuscendo in pochi anni a piazzarle nelle collezioni di tanti, dal re d’Inghilterra al cardinale Alessandro Albani, l’erudito e amante delle antichità che aveva molto appoggiato Winckelmann quando cercava di realizzare i Monumenti antichi inediti, un catalogo fatto con incisioni che pesò su tutto il neoclassicismo europeo, da Mengs a Canova fino a David.

La mostra è certamente una eccezionale occasione per vedere materiali che probabilmente in gran parte non sono esposti normalmente nel Museo napoletano, che possiede ben tremila reperti emersi dal XVIII secolo in poi dagli scavi di Ercolano, Pompei e Castellamare di Stabia: il primo affresco venne alla luce il 23 giugno 1739, una scena di animali con leoni, un delfino e un mostro marino. La metodologia che si sta portando avanti da oltre un secolo su questi siti muove esattamente al contrario di quella che fu la prima “metodologia”: staccare gli affreschi dai muri sui quali vennero dipinti, per finire nella collezione di Carlo III.

Fu un atteggiamento in voga fino a gran parte della fine del XIX secolo – come ricorda Marialucia Giacco nel catalogo, stampato egregiamente ed edito dalla stessa società che cura l’organizzazione, MondoMostre –, quando si capì che ove possibile era fondamentale lasciare le decorazioni nelle case per cui erano state dipinte, considerando che i pictores romani avevano coi loro committenti un assiduo dialogo e oggi quelle pitture hanno molto da dirci sulla storia degli artisti, dei cittadini e degli ambienti pubblici e privati. Il fatto è che il re borbonico dette un ordine drastico: fare una selezione fra le pitture degne di figurare nella collezione ercolanese e distruggere quelle che non ne avevano la dignità. È vero, come ricorda Giacco, che inizialmente erano piccole parti, per lo più nature morte, ma via via i brani staccati e spostati aumentarono di proporzioni e di numero.

E qui torna la questione del falsario, ben ricostruita da Paola D’Alconzo in catalogo: Giuseppe Guerra li aveva prodotti e messi in circolazione verso la metà del XVIII secolo. Di origini veneziane, egli si avvicinava ai collezionisti e agli antiquari come semplice mediatore delle opere che arrivavano a Roma dai siti campani. All’acquirente si proponeva anche come restauratore dell’opera, per pulirla dal “tartaro” che vi avevano depositato le terre e la lava: questo fugava ogni sospetto e gli portava un ulteriore guadagno su ciò che vendeva già a un prezzo elevato. Un gesuita – che come ricorda D’Alconzo, fu forse causa scatenante della bramosia di molti collezionisti –, ne aveva acquistati trenta, convinto della loro autenticità, e li mostrava ad altri che a loro volta li cercavano. Il caso montò e arrivò fino in Francia, quando alcuni falsi vennero proposti al conte di Caylus, grande collezionista, il quale però ebbe dei dubbi. Questo mise la pulce nell’orecchio ad alcuni, anche al re borbonico che incaricò nel 1757 l’ambasciatore napoletano a Roma di aprire un’inchiesta per scoprire la verità. Più grave fu appunto la decisione borbonica di limitare la fuga di materiali archeologici: la distruzione, appunto, di ciò che non veniva giudicato meritevole di entrare nel museo del re. Una prassi che, come ricorda D’Alconzo, non fu sospesa però nemmeno dopo la scoperta del falsario.

Individuati quattro falsi, il re li fece requisire e si offrì di pagarli, ma con la clausola che erano stati eseguiti «ad effetto di farli apparire antichi»; le autorità pontificie, invece, adottarono una formula più lasca che riconosceva all’autore di essersi «ingegnato per quanto ha potuto d’imitare l’antico». Fermo restando che Guerra si definì sempre e solo restauratore, rimane il fatto che ancora una volta il tema del falso aiuta a comprendere meglio uno snodo storico dove la contraffazione può diventare persino occasione didattica se è vero che le quattro opere del falsario vennero esposte nel Museo Ercolanese accanto agli originali, con tanto di spiegazione: «Per la prima volta, e nell’unico luogo che lo rendeva possibile – conclude la studiosa – il pubblico avrebbe potuto imparare a riconoscere ciò che era autentico da ciò che non lo era». Carlo III di Borbone tra il 1757 e il 1792 fece realizzare gli otto volumi delle Le Antichità di Ercolano esposte . Poi le cose rallentarono.

Pittura romana del I. sec. d.C., particolare da “Eros punito” (Casa dell’Amore punito)

Pittura romana del I. sec. d.C., particolare da “Eros punito” (Casa dell’Amore punito) - .

Con l’arrivo dei francesi e la salita al trono di Murat venne ridato impulso alle ricerche archeologiche, ma fu soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, e soprattutto verso la fine del secolo, che Pompei divenne una moda che ispirò arredi, abiti, decorazioni e ambienti. Alla fine del secolo, lo studio della pittura pompeiana vive una svolta concettuale grazie al tedesco Auguste Mau che riordinò il materiale distinguendo quattro “stili” fondandosi sulle diversità di tecniche e colori, inoltre ponendo strettamente in rapporto decorazioni e ambienti. L’altra grande svolta metodologica avverrà nel Novecento, anni Settanta, quando lo svizzero Karl Schefold mostrò quanto la pittura romana in gran parte fosse ideologicamente autonoma da quella greca di cui era stata vista fino allora succube; e verso la fine del secolo si specializzano anche letture più “sociologiche” che sondano mentalità, gusto e cultura in rapporto alla società romana.

Mario Grimaldi, che cura il catalogo, sottolinea come l’orizzonte di ricerca si sia allargato dalle “botteghe” ai “motivi firma” attraverso i quali si vuole isolare l’individualità delle mani creative, cioè degli anonimi artigiani che dipingono decorazioni oppure figure (due distinte competenze) nelle case dei romani. Si tratta appunto di “artigiani specializzati” dotati però di una certa libertà nelle scelte. Questa mostra cerca di far vedere che la serialità è ciò che ha permesso di precisare le botteghe, mentre il “motivo firma” è il timbro di una unicità inimitabile, dell’individuo. Si potrebbe dire anche che l’occhio archeologico si aguzza ricordando un po’ il metodo morelliano dei conoscitori (vedi le tabelle grafiche con comparazioni di mani e pose), anche se la “divisione del lavoro” nella bottega non garantisce, in assoluto, che chi fa le decorazioni e chi fa le figure siano sempre le stesse mani distinte e che, talvolta, non si possa verificare una commistione che difficilmente consentirà di assegnare un grappolo di opere o una stessa stanza dipinta da artisti “unici”. Il catalogo che se ne può ricavare, come scrive lo stesso Grimaldi, non permette di farne dei “maestri” ma solo brillanti artigiani. Eppure dotati di una loro espressività.

Li osserviamo col senso della meraviglia mentre siamo davanti a un tema come Micone e Pero, la pietas della donna che allatta il vecchio, come sarà nella carità romana che ritroveremo nei moderni (Rubens e Caravaggio); oppure il tema della “Vittoria regale” con la dea protettrice, o regina, seduta davanti al re che appoggia il suo braccio sullo scranno regale, ma secondo una precisa distinzione del ruolo e dello spazio. Anche i colori denotano un’appartenenza: nel catalogo, una breve tabella stilata da Hilary Becker riassume il valore economico dei pigmenti romani dove tra i più cari, anzi carissimi, c’erano il cinabro, il blu egiziano la porpora fatta da murex.

Ancora una volta troveremo in mostra esempi di natura morta dove, oltre lo spazio ben delineato, si possono vedere pomi, libri, rotoli musicali e altri oggetti (per esempio un vassoio di uova in un riquadro nella parte superiore della grande parete pompeiana della Praedia di Giulia Felice) che sbalzano oltre il piano d’appoggio, a volte depositando un’ombra sul bordo, come vedremo quindici secoli dopo nei cestini di frutta e nei vassoi di Caravaggio, forse a riprova che quello sporgere dell’oggetto gioca il ruolo di dispositivo visivo che di volta in volta può cambiare di significato, ma in ogni caso funge da meccanismo d’attenzione.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: